mercoledì 27 gennaio 2010

Vecchissimi ritagli

"Io non so se con la morte sia mai possibile “entrare in confidenza”. Facciamo sempre esperienza della morte degli altri, ma anche vedendola infinite volte tra i nostri più intimi amici e i nostri più cari familiari, non credo che ciò potrà mai aiutarci, preparandoci davvero, ad affrontare la nostra morte “bene”. La buona morte. La buona morte non è il momento, o la fase che porta ad essa…la morte è buona quando la vita è stata buona, nel senso che giunge senza che i rimpianti, le occasioni perdute siano macroscopiche, giacchè di piccole rinunce, di colline di non –detto, non-comparso, non-fatto la vita anche del migliore degli uomini si costella necessariamente, a causa della sua finitezza. Dunque la morte è buona se, nonostante l’inevitabile presenza nel ricordo di chi viene lasciato senza quel corpo e la possibilità di dialogare con lui, anche di fitte zone d’ombra, le zone di luce, la vividità delle immagini, il tessuto di formidabili esperienze condivise è nettamente prevalente.

Moriranno con noi solo le nostre parole? Solo partendo da esse, siano scritte o nei ricordi dei colloqui fatti insieme, si potrà ricostruire chi siamo stati? L’uomo non è solo ciò che dice, pensa e fa. Anche ciò che non dice, non pensa e non fa. È una bestia, un angelo, un pazzo, come dice Dylan Thomas. E tutto questo umano rischia di venire macroscopicamente strapazzato da un universale che intende procedere sopra la sua testa, timoroso del suo piccolo dire, del suo piccolo fare, del suo piccolo pensare. Non è l’indicare l’universale nella comunità, ma è il come riuscire a realizzarla senza che l’individuo venga in qualche modo “violato” nella sua assoluta individualità. È da sempre il problema più difficile del mondo. Privato e pubblico. Singolo e universale. Ecco, io credo che l’universale possa costruirsi soltanto a partire dai rifiuti. E i rifiuti sono tanti. Sono in primo luogo nella nostra coscienza. sono quelle zone di rimpianti che dobbiamo imparare a comprendere riguardino tutti e sulla base di questa consapevolezza annientare il giudizio, lasciando che prevalga una pietà, che non giustifichi, ma sappia arrendersi a quel che non è stato detto, perché sappia tenere a mente quanto la disperazione strozzi la parola. Il rifiuto attuale più grande, se l’universale in fondo, come ogni pensiero, reca una data, credo sia la natura. E, temporalmente, è il presente. È la dimensione temporale che l’utopia da un lato e il bisogno di salvaguardare la tradizione rivolgendosi al passato dall'altro lato , si lascia che viva punteggiata solo da un contrassegno di “accartocciamento”. Ma quando bisogna agire? Domani? Tra un paio di minuti? Oggi. Adesso. Tempo che non si racconta, che la scrittura può sigillare per occhi che non potranno intenderla se non diversamente, che il dialogo può coccolare, tessendo un manto di parole fuggevoli, che un bacio, una carezza incorniciano come la più incisiva delle esperienze che ogni uomo dovrebbe poter includere nella sua vita. Il presente è generosità. È il tocco."