venerdì 24 settembre 2010

The wild blue yonder



http://www.youtube.com/watch?v=0OBBeApW_f8&p=EB04F65F0AF759CB&index=5&playnext=3

"Finora voi quale velocità avete raggiunto?

Supponiamo che tu abbia iniziato il viaggio 20mila anni fa
All’epoca dell’uomo di Cro-magnon dei dipinti paleolitici nelle grotte del sud della Francia
Vai a caccia di bisonti, rinoceronti, mammut
Continui a 55mila miglia all’ora per altri 10mila anni
Ora sei nel Neolitico
L’umanità scopre l’agricoltura, alleva gli animali:
pecore, capre, cavalli, maiali e, quando dico maiali, intendo quelli domestici
questo è stato il primo peccato più grave dell’umanità
perché? Perché per allevare gli animali, devi diventare sedentario
nascono quindi i villaggi, dai villaggi i paesi, dai paesi le città,
che generano tutti i problemi che porteranno alla distruzione dell’uomo
allevare cani non è peccato perché aiutano l’uomo a cacciare quando è ancora nomade
ma allevare maiali si che lo è. Ho divagato
la nave continua per altri seimila anni
l’antico Egitto, i faraoni, le piramidi
ancora 2mila anni e siamo nell’antica Grecia, nell’antica Roma,
nel Medioevo ed altri peccati.
Secondo un poeta italiano sarebbe una buona idea
Scalare una montagna solo per divertimento
Gli svizzeri non lo fanno e gli sherpa l’hanno fatto solo quando
Gli inglesi annoiati del XIX secolo li hanno pagati per farlo
E così hanno rubato alla montagna la sua identità
Questo è stato peccato.
L’astronave continua il suo viaggio:
dichiarazione d’indipendenza, la Prima guerra mondiale, il comunismo,la seconda guerra mondiale, Marylin Monroe, Elvis Presley, fio ad arrivare ai giorni nostri.
Allora, quanto siete andati lontano?
Avete fatto solo il 15 per cento del viaggio per Alpha Centauri
Avete procreato soltanto 500 generazioni
Come potevate evitare unioni tra consanguinei, ribellioni, omicidi?
Come siete riusciti a non diventare dei mostri senza sapere
Da dove venivate o perché avete iniziato il viaggio?
Aggiungo anche che la stella più vicina
Che possiamo considerare non letale
Non è quella a 4 anni luce e mezzo, ma quella a più di 200 mila"

L'alieno, però, non considerava l'impressionante velocità di internet...
Non so quali impressioni possa avere suscitato la visione di questa "distopia" herzogiana. So solo dire che per me sono stati 80 minuti molto strani, cori sardi detestati massimamente a parte.
Ad un certo punto del documentario immaginario fantascientifico di Herzog, l'alieno Brad Dourif tocca il punto cruciale, la causa che ha portato allo scempio in cui viviamo oggi e che, quando lui racconta, si è già definitivamente compiuto.
Nato per essere un viandante senza tregua, l'uomo ha peccato e peccato gravemente accettando come sua caratteristica più evidente la sedentarietà.
Quest'accusa alla mancanza di ricerca nello spazio da parte dei terrestri forse non giungerà a chiunque come la chiave di volta essenziale per comprendere perchè siamo ridotti così e per quale ragione, più di qualunque contesa ideologica, prima di qualsiasi seria discussione persino sulla crisi economica e la disoccupazione, non ci sia niente di più urgente cui pensare se non il destino della terra.
Civiltà& progresso = morte della natura ed atrofizzazione del nomadismo che l'animale che ha ingenuamente e superbamente creduto di essere razionale e capace di grandi cose ha ignorato essere la sua caratteristica primordiale che, repressa dalla civilizzazione, resiste soltanto in poche etnie, dai più considerate "rozze", pericolose, inaffidabili.
A chi come me, già pigra e viziata dalla vita "intellettuale" ed affettiva, ha chiaro quali siano gli effetti generati su tutto il pianeta da questo modus vivendi occidentale, non resta forse altro che dichiararsi palmipedone, ostile all'edificare, al fondare, colonizzare, costruire e gettare basi, solo per inseguire quel perverso desiderio di stanziarsi anziché lasciare fluire, senza possesso alcuno, questo strano miscuglio di passioni e vanità che è la vita. Chissà, forse questo atteggiamento più che lassismo e strafottenza, assenza di responsabilità totale, potrebbe un dì essere interpretato come la sola forma di resistenza possibile proprio questa astensione decisa dal "segno"diretto, al quale si preferisce solo quello differito. Derrida ha riempito tanti cervelli, del resto, sicchè potrebbe davvero condizionare a livello globale una nuova visione etica del presente, come un meditato sentire comune nuovo, introdotto e trasmesso da parte di chiunque faccia i conti con la contemporaneità ed abbia scelto in che modo autentico viverla.
L'indietreggiare come l’unico atto d’amore che ancora si può rendere alla terra... e tendenzialmente anche nelle relazioni con gli altri...può darsi...
Ma ci sarà un motivo più "umano", forse, che ha provocato tutto questo, no? Qualcosa che un alieno non avrebbe forse mai potuto comprendere... Noi occidentali capitalisti abbiamo esagerato in un modo inenarrabile, però qualche strada da battere e cercare prima che sia troppo tardi forse ancora c'è data...Forse l'ignoto spazio profondo è un altro, quello che non tutti gli uomini sono pronti, capaci ed intenzionati ad esplorare.
Peccato, perchè chi inizia quel viaggio cerca quasi sempre anche il sacro, il che lo allontana da ogni pretesa fondativa e violenta verso la Natura e necessariamente lo spinge a ridurre l'aggressività nei confronti degli altri. O forse no, non è così. Non importa. Che anche la contraddizione inconcludente sia gettata in questo indifferenziato caos virtuale senza posa! Perdonate il mio più o meno noto spazio superficiale e proseguite il viaggio.
La sola profondità, del resto, qui possono cercare di darla alcune sconnesse riflessioni e rapide immagini tremolanti del nostro tempo fuori dal tempo, vigilia di sventura o di imperscrutabili nuove epoche di bellezza. Dipende dal nostro sguardo. Alla faccia di Herzog e dei suoi alieni.

I PALMIPEDONI

Tutta la vita dell'uomo viene determinata dalle domande che si pone e, di conseguenza, dalle tracce che lascia nel suo passaggio, qualunque durata esso abbia.



Nessuna esistenza è identica all'altra. Si somigliano tra di loro alcune esistenze, in certi aspetti universali e, talvolta, in certi piccoli particolari e solo "analogicamente", pertanto, si può cercare di avvicinarsi all'altro, in un movimento reciproco, scandito dalle parole, dai sogni, dalle azioni e dagli sguardi, chiamato "conoscenza". E lo si fa naturalmente, perchè è un piacere farla. Ma con chi?

Ci si accosta davvero all'uomo, al bambino, all'adulto ed al vecchio che si hanno davanti, come ciò che siamo stati, siamo e saremo, per cogliere qualcosa della loro essenza e regalare qualcosa di nostro, avendo a cuore ogni incontro con l'altro, considerato un dono?



Se si guarda un bambino, il soggetto debole dal punto di vista sociale perché privo di garanzie giuridiche richiedibili in modo autonomo, ci si ritiene troppo spesso tanto distanti e segnati dall'esperienza, da credere che non possa che sottomettersi all'autorità dello sguardo adulto. Se si guarda ad un coetaneo a quindici anni, lo si scopre gradualmente mentre cresce e ci si sente uniti da questo esperire delle novità assolute, iniziando solitamente anche a disquisire sui drammi della comunicazione umana, la difficoltà ad esprimere sè stessi, in un mondo adulto di giudizi perentori, condanne lapidarie, pochissimi silenzi e sconfitte radure poetiche.

Se si riosserva una manciata di anni dopo quell'amico, si conosce la disarmante estraneità che nasce in modo definitivo, orientando le strade secondo dei criteri che verranno di continuo ridiscussi. Ci si inizia a staccare dal mondo degli affetti familiare per crearne uno nuovo, una propria famiglia, si sia eterosessuali o meno. Si sente, malgrado si sia scoperta la sua ferocità, l'istinto di compagnia, qualcuno con cui condividere la propria intimità, magari anche solo un carissimo compagno di avventure intellettuali. Un altro punto di vista, un'altra storia. Ma è sempre qualcosa di comune che permette di potersi incontrare e trasformare vicendevolmente. Nel frattempo gli adulti che ci guardano come bambini li detestiamo, non curandoci di prendere le distanze e rispettare il patto recitato talvolta come una ribellione molto sagace, che più o meno suona così "io sarò diversa, non avrò mai con i miei figli atteggiamenti che nascono da idiote visioni stereotipate..". A noi non capiterà di sbagliare quando saremo al loro posto. Eppure verosimilmente non andrà così, falliremo anche noi, perché è fisiologico, accadrà perché deve accadere, inutile inneggiare atti di protesta contro una segreta legge dell'esistere che è la replicazione.



Se nel turbine di esperienze sentimentali, si riesce a trovare qualcuno con cui ci si sente meglio e si è pronti a salpare verso un nuovo lido chiamato famiglia, la distanza con quelli che erano i compagni più vicini nei mutamenti trascorsi potrebbe ingigantirsi, ma se la coppia è affiatata saprà resistere al pericolo dell'isolamento. Se intelligente, non sarà disturbata dal moltiplicarsi degli sguardi che osservano il nucleo che duetta e sopporterà di essere investito dal fascio di luce del giudizio di amici e nemici, più o meno ostile a seconda della disponibilità e la grazia mostrata nel lasciarsi illuminare.



Così la vita scorre tra continue ricerche di contatti e disperanti fratture. Ognuno va verso la sua fine, perdendo tante cose. Una lista di priorità significa una lista di fallimenti. Ed accettare che inevitabilmente saranno tali s'impara giorno per giorno, qualcuno non vuole impararlo mai, ma va fatto, proprio per non farsi condurre nella pazzia più totale, che esplode quando i limiti della mortalità si calpestano in nome di una certezza- qualunque tipo essa sia, anche la più nobile- che si ritiene assoluta.



Restare avvolti nella precarietà gustando poco per volta ciò che accade, lasciando che, seppur non colmati, molti sogni condiscano il proprio errare per il mondo, è tremendamente difficile. Ed è un modo di vivere ostinatamente contrario a quello che pare respirato dalla maggior parte del mondo capitalista occidentale, incentrato sul bisogno di produrre ed organizzare la propria esistenza come una fabbrica da cui trarre in modo tayloristico il miglior risultato nel minor tempo possibile, al costo di alienare le singole componenti con motoni lavori che li rendono estranei alla consapevolezza della destinazione del proprio operato meccanico.



Si fa, si dice, si pensa, si guarda. I film del momento ..le canzoni dell'anno..i personaggi pubblici, gli agoni della politica visti in tv, le mode sulle mete turistiche e sulle scarpe..tutto già predeterminato, sottrarsene diventa impossibile. I megastore e la fine delle piccole case editrici, artigianali...pesci piccolini divorati da un gigantesco pescecane chiamato capitalismo, all'inizio americano, ormai globale, nel mare del mercato che è continuamente in tempesta, almeno dalle nostre "fortunate" parti. Quante critiche ci sono state sulla prigionia dell'individuo nel sistema capitalistico e sulla new economy? Troppe. Sono servite a qualcosa? No. Ma cosa ci siaspetta, d'altronde? Quale cambiamento? Un ritorno del sacro? L'ammissione che non sia il solo mondo possibile, né soprattutto "il migliore", come continuano a volerci far credere? Quale rivoluzione può essere possibile di fronte a questa situazione indigeribile, che riduce la vita dell'uomo al noto trittico dei csi produci-consuma-crepa? E chi è questo "noi" intaccato da questo dilagare di vacuità? Perché fa tanta paura l'omologazione? Perché ci si deve ribellare ad essa? Si perde davvero la propria anima pensando "come" gli altri? L'unica garanzia per tenersela stretta è pensare "contro"gli altri?



Ecco delle possibili alternative che, cronologicamente,potrebbero essere le tappe di un rivoluzionario attuale, afflitto dal dilemma: o me o il mondo.



1) Isolamento esistenziale, socio- culturale :SCELGO ME, DIALOGANDO CON IL MONDO , SENZA LASCIARE CHE CONOSCA LA MIA VISIONE CHE è IN FORMAZIONE E NON VUOLE ESSERE FRETTOLOSAMENTE SCOLPITA DA GIGANTESCHE STRONZATE.



2) Creazione o apprezzamento, nel caso sorga spontaneamente, di una o più minoranze comunitarie, con cui confrontarsi e progettare diverse strade di resistenza,sulla base di qualcosa di affine (un piccolo gruppo, una famiglia ecc.. l'orchestra comincia a suonare) :TIMIDAMENTE ESPONGO LA MIA VISIONE, CHE CONTINUA A CRESCERE, CERCANDO COMPAGNI SIMILI CON CUI CONDIVIDERLA E DA CUI TRARRE ULTERIORI NOTE DA INSERIRE NELLA MELODIA DELLA MIA ESISTENZA



3) Passioni antiche da recuperare con modelli "utili" per esortare la società stessa alla rivoluzione, alla resistenza ed al cambiamento, sfruttando gli stessi canali dell'omologazione socio-culturale (internet e cinema) : PROPONGO LA VISIONE PERCHè SENTO CHE SE NE AVVERTA LA MANCANZA ANCHE FUORI DAL GRUPPO. ABBRACCIO IL MONDO SPERANDO CHE NON MI SOFFOCHI. È QUI, IN QUESTA FASE, CHE SI COMMETTONO GLI ERRORI Più GRAVI. SI SBAGLIA INTERLOCUTORE E SI EQUIVOCANO LE PREMESSE.NESSUNO TI STAVA ASPETTANDO, SEI TU, BRUTTO IMBECILLE, CHE SEI VOLUTO ENTRARE E DIRE LA TUA. IL MONDO AVREBBE VOLENTIERI FATTO A MENO DI TE. "NON DISTURBAR CAN CHE MORDE" TI DICE NIENTE?



4) Emigrazione : IL MONDO MI HA SOFFOCATO, ORA LO GUARDO SENZA GIUDICARLO, ASPETTANDO CHE MI DIA ANCORA LA FORZA DI CREDERE CHE UN CONTATTO SIA POSSIBILE.



5) Suicidio: RINUNCIO AD OGNI FORMA DI CONTATTO. MI INTERROGO PROFONDAMENTE SULLA MIA LIBERTà E, SCOPRENDOLA INESISTENTE SE NON NELL'ATTO DI DIRE UN PROFONDO NO ALLA VITA, SPEZZO IL SUO CORSO, NON CREDENDO CHE SIA RIMESSO AD ALTRI CHE A ME DECIDERE DELLA SUA SORTE.



Ogni giudizio nasce particolare.È la gigantesca trama di giudizi dati dai singoli a fare da filigrana del grande "giudizio universale" che sarà la Voce del secolo in cui si vive che chi ci sopravviverà dovrà ascoltare, per farsi un'idea di ciò che accadeva prima sulla terra. Ma il giudizio complessivo, quell'orchestra suonata dalla grande umanità, non può in alcun modo conoscersi interamente. Diventa però più facile esprimerlo se si fa monocorde, ben codificabile perché identico in molte teste.È la piattezza, dunque, che viene lanciata oggi contro un giudizio universale,divino, che invece sa essere "universale", pronunciato con esattezza inoppugnabile intorno a tutti, ma mantenendo l'unicità di ogni singola voce. Il giudizio Universale ermeneutico, insomma, emesso da bocca divina, con la quale forse qualcuno entra già vivendo in una "sfera ermeneutica". Si creda o meno all'esistenza di tale giudizio, lo si prenda pure soltanto come un ideale, questo scarto tra il giudizio- e dunque la giustizia degli uomini- ed il Giudizio Universale, ossia la Giustizia divina, non potrà mai essere colmato. Ma chiunque giudicasse dovrebbe tendere a dare giudizi impeccabili, come Dio. Proprio perchè il giudizio è una cosa molto seria, da cui derivano le punizioni e i giusti onori, la miseria dell'esilio o la beata amicizia.



La gigantesca operazione di livellamento che mira ad un giudizio standardizzato nel nostro tempo è stata portata avanti nell'ultimo secolo e mezzo grazie alla tecnologia. L'entropia delle opinioni è stata indirizzata e soffocata in un apparente ordine che ferisce qualunque persona viva oggi, ne sia consapevole o meno.



Non c'è spazio, apparentemente,per le ricerche singole, personali, appassionate. Pensare "come" o "contro" ciò che sostiene la massa diventa comunque un modo per venire intrappolati dalla massa stessa. Se ti esprimi, finisci anche tu nel calderone. Perché per esprimerti devi ricorrere al linguaggio anche tu, non hai scampo. Non importa ciò che pensi. Appena lo pensi, ricorri alle parole, alle immagini, a certi silenzi che affiderai, volente o nolente, all'altrui comunicazione. Falsare quel senso,approrpiarsene indebitamente, manipolarlo o ignorarlo quando invece occorrerebbe prestare ad esso molta attenzione, non è una minaccia ordita dai nostri tempi distratti, profani e troppo liquidi. Da sempre è accaduto e per sempre accadrà. È l'emblema della tragedia che rimane la comunicazione tra gli uomini, che si avvale di riconoscimento o mancato riconoscimento e si fa, negli anni, sempre più spietata e sempre meno pietosa, procedendo in maniera inesorabile alla stregua del comportamento scientifico, non "divino". Si cercano universali,formule, cocci di somiglianze che bastano per potere andare avanti, senza nessun rispetto assoluto per l'irriducibilità delle forme espressive dell'altro e, soprattutto, senza accettare la sua volontà di sottrarsi all'indemoniata piovra che afferra con i suoi tentacoli ogni suo dire e pensare, rovinandogli la vita in un caos di tracce mal interpretate che entra nelle teste di chi lo legittima o lo delegittima in modo continuamente inadeguato ed inappropriato. Persino i delinquenti hanno nella loro perversione colpito qualcosa di vero: l'ossessione per l'intercettazione è patologica. Bisogna prendere delle misure per poter allontanare questa malattia.



Ma se gli interessati al consenso imbavagliano l'informazione solo per non rispondere dei propri illeciti intrighi e delle criminali azioni, così da creare un'immagine seducente del loro operato, ovviamente il rifiuto del riconoscimento in chi non ha e non vuole avere a che fare con il "potere" se non come un semplice cittadino nasce da altro genere di riflessioni. E la differenza è tangibile nei suoi effetti.



Il primo continua a parlare, il secondo tace. Il primo ritiene di essere il giudizio universale, il secondo lo aspetta nostalgicamente ed osserva silenzioso i giudizi particolari di ciascuno, provando profonda pietà.



Non c'è, infatti, nessuno specchio che basti a riflettere le proprie idee, i propri gesti, i propri umori...ognuno ne ha milioni. E non ne ha, di fatto, nessuno. Per impedire, allora, che banali e mortificanti operazioni di reificazione si operino sull'uomo, questi non ha altra scelta che la rinuncia-illusoria- al farsi riconoscere, applicando in proprio la stessa condotta,ossia la non emissione di alcun giudizio. Questo vuol dire farsi simili a piante o a muti pesci, forse, ma è ciò che preserva dal farsi aggredire insistentemente dai giudizi altrui. Rendersi invisibili e muti, depotenziare i sensi, non volere sapere troppo, non voler sentire troppo. Ecco qui, benservito, l'attuale uomo post-moderno, il colto astenico che, come il palmipedone di Alice di Walt Disney, cancella le tracce e non vuole essere calpestato.



Ma cosa accade laddove cotanta sensibilità non è stata sviluppata? Come viene recepito il palmipedone del ventunesimo secolo? Vediamo un po'.



Chi voglia difendere la sua unicità, il diritto a pensare come vuole pensare, viene definito, prima di essere etichettato come psicopatico, come un originale, graffiante critico, un pericoloso guastafeste, in sintesi, generatore di guai. Le opinioni formate pazientemente in dialogo con la sua tradizione e nel confronto con quelle di altri luoghi e tempi della storia (fase 1), si condensano in una visione variegata che tenterà di fare entrare in circolo con piccoli gruppi comunitari, dove si può respirare libertà di espressione e dove sacro e profano entrano in un'originale, benefica dialettica che allarga le menti di chi partecipa alle straordinarie conversazioni che fondano queste piccole comunità (fase due). Gradualmente potranno nascere impennate retoriche di coinvolgimento pubblico, per effettuare il passaggio dalla comunità alla società (fase tre). A questo, che già ho segnalato essere un colossale errore, ma che purtroppo mi riguarda, seguiranno movimenti di opposizione interni al suo pensare che lo condurranno ad una nuova fase di distacco, fisico o mentale(trasferimento in nuove terre, esplorazione vorace di luoghi nella letteratura,nel teatro, nel film e depressione, fase quattro).



A questo punto, lo slittamento nel suicidio, in questa assurda pretesa di elencare delle esperienze di vita assoggettandole ad una volontà deficiente di mostrare i paradossi del nostro tempo, potrebbe essere una via di fuga o una salvezza per colui che non trova più nessuno stimolo né nella comunità né nella società per sentirsi vivo,felice e ricco di sogni com'era da ragazzo, al punto da non ricordare più quanto la compagnia, per quanto necessaria, vitale, il succo dell'esistenza essa sia, non esaurisca affatto- e lo sa bene- la forma e la sostanza dello stile con cui ci si possa tuffare e navigare nell'esistenza.



Potremmo elencare anche il misticismo o la clausura in qualche eremo lontano dalle chiacchiere umane, a contatto con la natura, sempre immaginando il protagonista di questa vita un uomo con disponibilità economica tale da concedersi questi lussi.



Perché tutto questo discorso si fonda su una colossale cazzata. La rimozione del procacciamento dei beni come attività fondamentale che regge lo scambio tra uomini.



Il regime capitalista l'ha esacerbato, rendendo il consumo qualcosa di ontologico, che riguarda l'arte, la cultura e persino i sentimenti. Ma è umano, ancestrale, necessario andare avanti mangiando e cercando di cosa mangiare, come campare per arrivare a soddisfare i propri istinti fisiologici e concedersi qualche "premio" per la fatica impiegata.



Nelle altre società questi premi erano solo per pochi privilegiati, per i ricchi padroni di terre, per i nobili o coloro che si distinguevano in battaglia. Gli altri erano tutti morti di fame, costretti a lavorare su commissione e diventare magari celebri nei secoli a venire per le loro opere, dalle quali non avevano tratto in vita alcuna fortuna reale.



È il mito del successo ciò che più ha reso questo mondo differente ed inconciliabile con i precedenti! La mancata distinzione tra fama conquistata per merito ed il successo materiale, tutta quella ricchezza che deriva unicamente dall'inserirsi in qualche circuito che gonfi il portafoglio meccanicamente, senza richiedere all'individuo alcuno sforzo mentale, alcuna capacità sostanziale, nessuna inventiva e creatività così eccelse...e che viene poi esibita attraverso determinati oggetti, livellando in nome della volgarità gran parte della società occidentale...questo è ciò che accomuna gran parte della borghesia e non solo del mondo odierno. Un esteso gruppo di persone di tutte le età e religioni, che vive osservando attenta il proprio reddito e poco il bilancio del suo cuore.



Ci sono i ricchissimi, certo, che possono effettivamente avere avuto fortuna nel mondo commerciale e spiccano come stelle, intorno alle cui vicende sentimentali discettare dal parrucchiere,perché conosciuti da tutti ed immortalati da centinaia di paparazzi. La brutta sorte dei vip, la conosciamo bene. il personaggio che oscura la persona e blablabla.



Ma c 'è anche una categoria estesa di persone che vive quello della ricchezza come un mito e fa sogni come quelli dei miliardari, concependo le vacanze, il turismo e diversi lussi, quali i massaggi e le palestre, come qualcosa di "dato", che fa parte del proprio vivere e rappresenta una risorsa indispensabile per affrontare la ripetitività delle giornate trascorse a lavorare e mandare avanti la baracca.



Tutte queste cose il palmipedone le conosce bene. Le ha irrise, derise e poi vissute in prima persona. Non vuole mostrarsi più ingrato per le strabilianti opportunità offerte dalla sua epoca e godrà quanto basta di ciò che può garantirgli un equilibrio psico-fisico tale da piacersi, piacere a chi ama e sostenere le sue ricerche personali, silenziose, rispettose del "dovere".



Ma è il COME vivere che rende la sua esistenza unica, la sola strada differente al suicidio in quell'improbabile elenco di cui sopra, che descrive necessariamente un conflitto..provate a vivere voi nel duemilaedieci, signori miei!



Il nostro rivoluzionario intende proseguire il suo cammino senza lasciare traccia, nè luccicante, né mediamente luminosa. Anticipare l'oblio senza morire, è precisamente questo che fa il palmipedone. Ha colto bene come il "lavoro" sia indispensabile e, qualunque genere di lavoro gli capiti tra le mani, così difficile da ottenere, lo svolge senza lamentarsi, ma senza nemmeno volere eccellere in cerca di apprezzamenti. Gli importa soltanto che venga pagato per mangiare, dar da mangiare ai suoi figli e comprare per sè qualche libro,concedersi qualche film e qualche viaggio, da fare da solo o con la sua famiglia. Ha un equilibrio che pare noioso a chiunque, ma che è frutto di anni interi di rielaborazioni di esperienze importanti e fondamentali. Non cambierà ancora, ormai è questa la forma che ha scelto. E dovete ammettere che è una fortuna. Il processo delle quattro fasi che precedono il suicidio, infatti, lui l'ha gustato per bene, poteva andargli peggio. Alla fine ha anche profondamente disperato, come voleva Kierkegaard, accettando così totalmente l'etico, ma senza mai rinunciare del tutto all'estetico. Solo che è riuscito a fabbricarsi una maschera speciale,che lo rende un essere umano qualunque per tutti, un genio sofisticato soltanto per sé stessa/o, in dialogo perpetuo con il divino che si preoccupa di vedere ed ascoltare nascere e morire intorno a sé, nella sua vita che resta per gli altri, ma indipendente da ciascuno di loro. Rifiuta che tutta la nobiltà e sacralità che abitano in lei/ lui vengano sottoposte ai giudizi di chi la/lo circonda. Non si lascia intercettare. Offre come merce unicamente lavoro manuale e commerciale, ma né l'arte né i pensieri socio-politici né le poesie d'amore nè quelle in cerca di Dio -così come i suoi diari appassionati e le sue brillanti riflessioni sul linguaggio, le idee, la filosofia e la retorica- entreranno mai nel circuito capitalista. E probabilmente nemmeno in quello accademico della fase due.



Questa è la sua decisione. Non lasciare alcuna traccia ad un mondo che ha abitato intensamente ma sa benissimo non avrà affatto mai alcuna possibilità di comprenderlo. Ha osservato, guardato acutamente ed approfonditamente tante cose. Molte sono state fondamentali nei legami creati, tanti conservano una stima inenarrabile di questo individuo che vedono ormai muto, eternamente corrucciato, ospite freddo nelle cene poco chiassose a casa ed asettico nei commenti lasciati all'uscita dal cinema e durante i tanti concerti e le mostre, che era così piacevole condividere con lui. Fino a qualche tempo fa, prima che diventasse quello che ha scelto di essere. Un essere umano che appare senza nessun brio e vivacità che, pure, lo resero unico un tempo, diventando gli scivoli del suo ingresso nelle comunità e nella società.



Quel "peccato che si sia ridotto così" sale alla bocca dei suoi amici più cari che, preoccupati, chiedono al coniuge come stia. Ma lui stesso ha più volte sottolineato quanto la depressione sia svanita e la sua serenità definitiva si rinnoverà nel segno di questa condotta molto civile, educata, del tutto incolore soltanto per gli altri. I colori affolleranno sempre la sua anima. E lui, senza tentare di raccontarli nelle loro sfumature, prenderà parte allo stare insieme, ma non sarà né una buona né una cattiva compagnia, sarà semplicemente presente, con il suo nulla, la sua angoscia e tutta la sua gioia stiracchiate nel ventre, incapsulate a dovere, pronte ad esplodere nelle solitarie discussioni di cui nessuno potrà avere memoria.



Non dovete aspettarvi niente dai palmipedoni. Sarebbero proprio coloro in grado di salvare il mondo con la lucidità, l'ironia e la grande capacità di collegare eventi che i più non riescono o non vogliono vedere correlati, ed in grado di disunire ciò che a molti appare costitutivamente tutto d'un pezzo e da venerare acriticamente. Purtroppo per l'umanità, non lasceranno alcuna traccia della loro magnifica intelligenza. E non agiranno mai per un "bene comune", di cui hanno riconosciuto l'impraticabilità. Non si lasceranno in alcuna maniera schedare, imbrigliare, infliggere atroci ferite da un'etichetta, ma sgusceranno fino all'ultimo respiro da ogni vostra labile opinione intorno al loro essere e pensare, al fianco del quale, pure, si sono posizionati. Non potrete chiamarli neppure asociali, perché ci saranno. Sarà la consapevolezza delle loro origini così energiche ed elettrizzanti che tormenterà magari qualche loro contemporaneo, ma poi, perduta anche quella, i palmipedoni avranno vinto nel disegno orchestrato dalle loro più insane cellule cerebrali, non lasciando davvero più nessun ricordo colorato del loro esistere, ma solo una pallida lastra di marmo con una data ed un nome, di cui nessuno sentirà più parlare.



Avevano un solo bene da difendere. E fino alla fine hanno lottato perché non venisse in alcun modo perduto.

Da una nota lasciata su faccialibro qualche giorno fa

A tutti i caduti della mia generazione
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Perchè? Su, perchè? Non è meglio tacere? Certo che lo è, ma devo condensare da qualche parte la furia di pensieri ed amarezza di queste ore.

Rinunciare al riconoscimento è possibile per un uomo?

Dopo parecchio errare, forse riuscirà a fare a meno dell’opinione altrui. Della propria opera no, o, meglio, con molta più difficoltà.

Sono stati i Greci ad insegnarci quanto sia essenziale la fama. Lasciarsi riconoscere per alcune virtù ben codificate era alla base del vivere in comunità. Chi meritava il riconoscimento fino a Socrate erano sovrani, guerrieri, in seguito atleti. La rivoluzione socratica rovesciò i termini entro cui misurare la validità di un uomo, operazione ritenuta da Nietzsche criminale, instauratrice di quell’etica degli schiavi di cui il cristianesimo non sarebbe che un degno figlio. Vitalismo versus cura dell’anima. Ecco i grandi temi gettati fin dall’inizio tra i copioni susseguitisi nel grande palco della vita occidentale per millenni.

"Non cantata, l’azione più nobile morirà". Pindaro, frammento. “Non omnis moriar”, Orazio, Odi, III, 30 6. E così questo bisogno di non morire, aggrappandosi alla speranza che le tracce, almeno quelle, siano eternamente mediate perché ben curate e lasciate generosamente all’eternità, ha condizionato tutte le altre epoche, che si sono volta per volta trasmesse qualcosa attraverso il segno scritto. Conservando e (ri) creando. Per alcuni è sintomo di un'ingorda volontà di potenza, ma credo che si confidi nella propria opera, perchè si ha consapevolezza di essere estremamente fragili e l'unica cosa che si possa modellare sfidando il tempo è un dono da lasciare agli altri, che potranno, se vorranno, riconoscere parti dello spirito dell'autore. Tuttavia, anche l'assenza di tracce ordinate, l'opera incompiuta ed interminabile può e deve essere considerata, oggi più che mai, l'eredità di chi non c'è più.



Si cade. Prematuramente o meno, si cade. Per poi rialzarsi o per restare giù, si cade.

Caduti in battaglia. Caduti sul lavoro. Fallen in love. Ed in generale, sempre in piedi non si può stare. E quando si cade e si vorrebbe restare rannicchiati in posizione fetale ad osservare la vita che scivola sulle nostre paure, perché dovremmo rimetterci dritti e continuare ad andare? Non è stando a terra che possiamo opporci al passaggio? Farlo passare e sconfiggere il suo scorrere, non duellare più in questa lotta per l'esistenza, che scova i suoi vincitori quasi sempre tra coloro che meglio sanno adattarsi alle regole del proprio tempo.

In piedi, ci si confonde con coloro che si rialzano senza avere imparato nulla dalla caduta, assetati di vittoria, innamorati della rapidità della camminata ritmica, alla cui frequenza non nasciamo tutti egualmente predisposti.

Chi si alza, non si piega. Procede. Rapidi momenti di imbarazzo e cordoglio per gli altri rimasti a terra, ma nessuna bandiera che interrompa la corsa, come per quel giapponese di diciannove anni che correva troppo, giocava con la morte, ma non meritava di andarsene nell’indifferenza di tutti.

Poi, come fu per Marco sette anni fa e per Patrick qualche mese fa, qualcuno pare prendere coscienza dell’indecente danza voraginosa del nostro tempo vuoto, che miete ovunque infelicità... ma dura pochissimo e poi tutto torna come prima. Ed un due e tre, ed un due e tre… come un’insostenibile aerobica insegnata da un maestro con pile duracell in qualche palestra dall’aria appiccicosa… inspira, espira, gamba destra in su, guardati allo specchio, segui me, sorridi, ancora uno sforzo, su, su, vai, bravo, bravo..continua, bene, bene, beneee

Che bei sorrisi smaglianti a sostenerci. Che belle formule inneggianti alla vita, al suo valore, alla sua meraviglia! Nessuno pare accorgersi della nevrosi vitalista in cui si consuma il nostro tempo, di quanto tremendo timore di morte lo divora. Oppure è tutto un modo per esorcizzare, già. Ed uno dei contenitori di esorcizzazioni più lampanti è il social network, come testimonia l'esistenza di questa nota.

Ogni icona pronta a dire la sua, a vomitare la sua opinione intorno ad ogni caso di caduta, reso un momentaneo possesso del vociare dei più, violando il suo non voler essere un fenomeno, magari. Nemmeno un esempio da prendere in considerazione. Solo una caduta. Ebbene, cosa state lì a piagnucolare? Non fatelo se quello che vi interessa è solo produrre e viver sani e belli, non vi fermate. Ed un due e tre, ed un due e tre…

Se invece sentiamo che appartiene anche a noi quel dolore, quel terrore di non avere futuro per le colpe dei padri ricadute sui figli che hanno dipinto un'Italia di vecchie figure, spesso squallide…se inquadriamo la morte di Norman nella logica di un Paese paralizzato dalle raccomandazioni e che non tiene conto dei meriti, non li incoraggia a risplendere..beh, contempliamola con rispetto lo stesso, senza gridare, senza esprimerci in termini di condanna socio-politica, pronti a cercare ovunque colpevoli da scannare, generalizzando a più non posso, per favore... Non è che un modo banalissimo, incapace di rendere davvero conto di cosa significhi una perdita. Finirebbe con mettere addosso a Norman un'etichetta, quella dell'eroe senza futuro dei nostri tempi e dimenticarcene rapidamente, senza lasciare che rimanga necessario provare tormento per il suo gesto, che non va spiegato a tutti i costi, ma dovrebbe restare ferita profonda, segno di un fallimento collettivo, disarmante, che impone una domanda aperta sul senso/non-senso della sua morte.

In realtà, stiamo cadendo tutti. Solo che in troppi preferiscono ritenerlo inessenziale.

Ci nutriamo delle morti altrui per creare un’immagine della nostra e rigettarla in fretta. Andiamo ai funerali ricordandoci all’improvviso di tutto quello che non abbiamo ancora detto e fatto e raccomandandoci di cambiare profondamente alcuni atteggiamenti e mentalità che ci hanno reso distanti persone care. Fugaci bilanci, disattesi non appena rientreremo nell’eterna distrazione, connotazione ontologica del nostro tempo.

Distratti dalla morte. Una vita che non si rende conto che è tale perché stagliata su un fondo nero al quale torneremo necessariamente è un’illusione patinata che corrode il centro nevralgico dell’esistenza umana. Il suo rapporto con il tempo.

Mutilato della possibilità di piroettare indietro verso le origini e di profilarsi destini imperscrutabili con progetti a lunga scadenza, l’immaginazione e persino folli amori da cantare un domani, il perpetuo presente di oggi rischia di diventare il letamaio che accoglie tutte le nostre insulse esistenze. Un presente che raramente è vivente.

C’è chi decide di sfidare la morte, inseguendo una goccia di splendore. Una scommessa d’eternità, come sono la poesia, la musica, la danza, il teatro, il cinema o persino grandi imprese. O la filosofia, dono eccelso, eredità suprema, che per me continua ad essere, malgrado tutto, l' apice di ogni ricerca razionale dell'Occidente.

E c’è chi si imbeve di nichilismo per addomesticare ogni tormento e livellare ogni azione, dire e sentimento, non avendo più alcun’ansia di mostrarsi e dimostrare alcunché.

Mi accorgo che comunque da ogni modo di essere adottato lasciamo che scaturisca un’infondata rabbia verso qualcosa di esteriore, le strade imboccate dagli altri, senza mettere fino in fondo in luce i nostri stessi limiti.

Anch’io, adesso, con chi ce l’ho precisamente? Quale vita impersonale sto descrivendo? Quale meschinità sto cercando di criticare? Probabilmente unicamente la mia. Perché la verità è che non ce l’ho più con nessuno. A furia di lottare, pensare contro, osservare da vicino il nemico che cambiava continuamente sembianze dentro e fuori da me ed ipotizzare resistenze varie, ho perduto fiducia nella possibilità di distinguere fermamente il bene dal male, preferendo “economizzare”la violenza con un'eccessiva diplomazia ed un'ingenua generosità verso persone che non hanno bisogno davvero di me, non ora..sto recitando solamente il rifiuto del riconoscimento in ambiti dove ho avuto l'onore e l'onere di introdurmi grazie al mio lavoro, che ormai dimostro, in fondo, di disprezzare non impostando tutta la vita sulla ricerca, come fanno soltanto coloro che credono in questa fatica intellettuale... come facevo anch'io. Sono caduta da un pezzo, nessuno se n'è accorto. Hanno cercato di farmi capire come fosse normale, sono riuscita a consolarmi con la logica del "così fan tutti". Ma adesso è giunto il momento di alzarsi e ricominciare a camminare a passi lenti, come spetta a me.

Il cuore è spezzato perchè non può tollerare che a ventisette anni si muoia così. Sento e presagisco la solitudine di Norman, ma non me ne approprio, non la utilizzo. Lascio che mi trasformi, custodendola per quel che posso riuscire ad intuire essa sia stata.

Non c’è nessuno sbocco effettivo per il filosofare. Nessun traguardo spetta a tutto quel domandarsi inquieto, cercare tracce,tradurle senza tradirle, scovare pubblicazioni non prese in considerazione da nessuno, ideando un gioco di concetti implacabile, che dall’esterno verrà sempre giudicato inessenziale. Non c’è certezza alcuna di vedere premiati quegli sforzi, nessuna logica asino-carota. Ci si nutre di pensieri, intuizioni e questioni che di rado entusiasmano la massa. E si resta isolati ed incompresi, speranzosi che almeno nell’Accademia, tra simili, sia consolidata una fiducia smisurata per i nostri sforzi. Ma il dialogo tra colleghi è sempre più difficile, così come quello tra studenti e docenti, eccezioni magnifiche a parte che ho avuto la fortuna di sperimentare e cui manifesterò sempre profonda gratitudine.

In questo momento tutti nella famiglia, tra gli amici di Norman ed in facoltà si staranno interrogando sulle proprie responsabilità.

Io Norman non lo conoscevo. Il suo viso me lo ricordo benissimo, l’ho incontrato tante volte, ma è già significativo della distanza che si può instaurare tra colleghi il fatto che non avessi alcun rapporto con lui. Colpa mia, sempre troppo lontana dall’Accademia, malgrado il ruolo ricoperto che mi costringerebbe a vivere prevalentemente lì, lo so. A che serve studiare a casa, se esistono le biblioteche?

Ora so con chi ce l’ho. Ce l’ho fondamentalmente con me, che questo posto probabilmente non lo merito come lo meriterebbero altri, come l’avrebbe meritato lui. Ormai Norman era quasi arrivato al capolinea del suo dottorato. Bastava poco per avere un titolo. Ma gli sarà sembrato atroce riuscire ad arrivarci, ed in fondo inutile, e questa sensazione io ce l’ho già un anno prima.

Se non si trasforma in passione totale per la ricerca, la consapevolezza di questa caduta è solo una lacrimosa, insensata azione melodrammatica del mio cervello stupido. Se non diventa un modo per affermare in modo più forte il diritto allo studio e la necessità di confrontarsi di continuo con colleghi e docenti, scoprendo le proprie manchevolezze senza sentirsi delle nullità, sarà come se Norman non fosse mai morto. Come se non avessimo capito perché ciò è accaduto. Ed un due e tre, ed un due e tre…

Perché è accaduto? Una risposta univoca non sarà mai possibile. Di sicuro ci si lancia nel vuoto perché il calore non lo si avverte davvero più, forse è recepita come finzione anche la disponibilità da parte di alcuni a misurarsi con le problematiche interiori, e la liberazione dall’angoscia si sente che non possa passare altro che da un atto estremo, non dall’amore disinteressato, capace di lasciarla esplodere in rivoli di dialoghi continui con persone che sanno ascoltare, o almeno ci provano...Riuscire a tirare fuori parole dure, che sfibrano, ma che non si può fare a meno di lasciare imbrigliate da qualche parte, aspettandosi una correzione, un cenno di soddisfazione o una punizione. Ecco perché il riconoscimento per un uomo è necessario. Abbiamo bisogno di affidare a qualcun altro il nostro verbo, sbagliato,sempre troppo umano, perpetuamente da limare in uno scambio continuo che solo la morte può giungere ad interrompere.

Chi non parla con nessuno sta sempre male? Forse no. Le fratture sono indispensabili tanto quanto i dialoghi. Ma quell’inesprimibile che ci accompagna rischia di originare sillogismi inesatti, contrari ad ogni legge di natura, se non tentiamo di sfidarlo in un’approssimata vicinanza dialettica. Porgersi fuori da essa, porgersi cioè fuori dalla vita, accade quando gli altri sono diventati, se non addirittura complici del proprio malessere, solamente freddi ostacoli, incapaci di interagire adeguatamente con le proprie visioni. Ma in realtà nessuno è mai riuscito a spiegare perchè dovere stare al discorso, perchè cercare equilibrio ed aver contezza che ciò che indossiamo volta per volta sono soltanto maschere e tragedia, satira, commedia si alternano senza sosta all’interno del nostro stesso più o meno lungo tragitto vitale. Certo, è facile dire che ci vuole ironia e si debba capire come ci sia una distanza impossibile da colmare tra il soggetto che agisce, cerca il suo essere e si sforza di accettare il suo dover essere, restando fiducioso e timoroso del suo poter essere da una parte e la vita stessa, oltre il soggetto, qualcosa la cui radice rimane misteriosa, ripugnante o divina che sia, in ogni caso non a disposizione di nessun essere vivente, dall'altra parte. Facilissimo ammonire coloro che si illudono di essere i registi del loro esistere e perdono di vista la tensione verso quel vitale che rimane sempre inafferrabile per tutti. Facile, troppo facile, parlare come Gadamer ed elogiare la misura , ciò che ci consente di individuare il punto limite entro il quale non è possibile andare, perché l'essere umano non smette di muoversi intorno ad una dialettica infinita tra creazione ed autoconservazione, che restano entrambe peculiarità originarie del suo essere, che misto nasce e misto (di bellezza e di orrore) morirà.





Quando Marco morì, rimasi per mesi a scrivere su di lui, senza poterlo dire mai a nessuno. Non era mia quella morte, perchè non era stata "mia" quella vita, ma semmai di alcuni tra i miei migliori amici che con Marco condividevano giornate e notti intere. Io ho avuto l’onore di uscire con lui e gli altri ogni tanto, parlargli talvolta all’università, dove capitava fumassimo qualche sigaretta insieme, niente di più. Ma non me lo sono dimenticato, perché il suo sguardo è impossibile da dimenticare. Da allora sono andata sempre di meno in facoltà. Ed ancora oggi, mentre al teatro Gregotti giù si dibatte su Benjamin e su S.Tommaso, in silenzio sento il potere fortissimo delle sue immagini alle spalle, su quel muro dove le hanno raccolte, senza targhette né illustrazioni di alcun tipo che pretendano di dire chi fosse Marco.

Tracce, lasciate lì, perché qualcuno si ricordi di lui, mentre intanto gli studiosi, i suoi colleghi ed i suoi professori, continuano ad ingrossare la “ricerca”.

Non ho la forza di tornare al settimo piano, dove qualche tempo fa trasformavo in chiave estetica la rabbia ed il terrore, pensando intensamente a quel momento, come se fosse stata anche colpa mia. Perché quel senso di corresponsabilità non è mai svanito e non è semplice addomesticarlo.

Non si può spiegare il dolore, mai. Inutile interrogarsi sulle ragioni, immergersi in continue domande sul senso del riconoscimento, la libertà e la decadenza dei tempi. L’essere e il dover essere. L’apparire che uccide l’essere. Basta. No, ormai non piango più. Perchè lo sto facendo. Non ha senso. Lascio che la disperazione mi faccia sanguinare interiormente, ma non voglio esibirla, perché io sono fortunata e non ho diritto di partecipare a riti solenni di cordoglio per la morte di questo mio collega.

"Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione. Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto: "Non c'è altro da vedere", sapeva che non era vero. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si è visto in estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha cambiato posto, l'ombra che non c'era. Bisogna ritornare sui passi già dati, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre. Il viaggiatore ritorna subito. "(José Saramago)

Io, che ho tanto cui aggrapparmi, continuo questa replica continua, tornando ogni volta indietro, a rivedere qualcosa, a sperare ci sia altro da vedere, ma senza correre, senza nevrosi insensate di dovere stare al passo orgogliosissima del portamento e delle mie visioni. Perché chi è caduto o non può camminare abita in me. Ed è quel dolore ad impedirmi di trovare allettante la corsa verso l’abisso. Perché non vince chi arriva prima. Forse non vince nessuno. E l’esigenza di essere competitivi è la più ingenerosa invenzione contraria all’umanità che il nostro tempo utilizza a iosa per creare gerarchie idiote ed ingiuste, che lasciano ai margini troppe persone di valore, che personalmente non ho alcuna intenzione di oscurare con una folle, smisuratacorsa, dimentica di ogni caduta.



Ma perché pria del tempo a sé il mortale invidierà l'illusïon che spento pur lo sofferma al limitar di Dite? Non vive ei forse anche sotterra, quando gli sarà muta l'armonia del giorno, se può destarla con soavi cure nella mente de' suoi? Celeste è questa corrispondenza d'amorosi sensi, celeste dote è negli umani; e spesso per lei si vive con l'amico estinto e l'estinto con noi, se pia la terra che lo raccolse infante e lo nutriva, nel suo grembo materno ultimo asilo porgendo, sacre le reliquie renda dall'insultar de' nembi e dal profano piede del vulgo, e serbi un sasso il nome, e di fiori odorata arbore amica le ceneri di molli ombre consoli. Sol chi non lascia eredità d'affetti poca gioia ha dell'urna; e se pur mira dopo l'esequie, errar vede il suo spirto fra 'l compianto de' templi acherontei, o ricovrarsi sotto le grandi ale del perdono d'lddio: ma la sua polve lascia alle ortiche di deserta gleba ove né donna innamorata preghi, né passeggier solingo oda il sospiro che dal tumulo a noi manda Natura.



(U.Foscolo, Dei Sepolcri).



Come donare alle anime cadute un frammento d'eternità? Non ci sono risposte, ma sfido ancora un pò il silenzio decoroso che mi spetterebbe, esortando principalmente me stessa a considerare che se pietà, riconoscimento e gratitudine sono mancate a tanti amici ed amiche fragili mentre erano in vita, non possiamo far altro che onorarli con misericordia infinita adesso, prendendo in consegna il loro tormento, senza troppa retorica.

Lasciare che vivano attraverso di noi, in un dialogo interiore che prosegue ininterrotto è la sola maniera per non perderli per sempre. E sforzarsi di partecipare ad un dialogo con i vivi che salvano ed aspettano di essere salvati tanto quanto noi, resta l'unico tentativo per tentare di non ritrovarci di nuovo analfabeti in queste situazioni crudeli.

Sarò pure poco "teoreta" e molto bambina frignona, ma qualcuno sa dirmi quale traccia ed eredità conta più lasciare, se non quella degli affetti?

Se lavorare stanca, non lavorare uccide

“Giovani senza lavoro”
di Valerio Magrelli

I
Giovani senza lavoro
con strani portafogli
in cui infilare denaro
che non è guadagnato.

Padri nascosti allevano
quella sostanza magica
leggera e avvelenata
per le vostre birrette.

Condannati a accettare
un regalo fatato
sprofondate nel sonno
mortale dell’età,

la vostra giovinezza,
la Bella Addormentata,
langue nel sortilegio
di una vita a metà.


II.
Giovani senza lavoro
chiacchierano nei bar
in un eterno presente
che non li lascia andar.

Sono convalescenti
curano questo gran male
che li fa stare svegli
senza mai lavorare.

Di notte sono normali,
dormono come tutti gli altri
anche se i sogni sono vuoti
anche se i sogni sono falsi.

Falsa è la loro vita,
finta, una pantomima
fatta da controfigure,
interrotta da prima.