lunedì 26 dicembre 2011

L'acidduzzu 'nta la gaggia canta p'amuri o pri raggia

In fondo mi chiedo se il vero movimento del mondo non sia proprio il canto. (Muriel Barbery)

L’uccello si è schiantato. Non può volare più. Era andato troppo in alto, aveva visto persino il Sole e gli aveva indirizzato le più splendide melodie che fosse in grado di concepire. Si era illuso di possedere una forza che non aveva. Aveva oltrepassato ogni limite imposto dalla natura, superando i suoi compagni e non riuscendo più a stare negli stormi con felicità. Cercava vie solitarie, trovò anche qualche uccello più grande che lo aiutò per qualche tempo a non precipitare. Ma alla fine il suo destino era segnato. La spensieratezza originaria era frantumata per sempre, perché nulla riusciva a ricordargli il suo Sole e nessun canto poteva più essere bello se non veniva indirizzato a Lui. L’uccellino intonò ancora qualche nota, imprimendo nel suono la potenza del suo cuore ferito, ma ininterrottamente curioso di sapere qualcosa di più di quella perfezione, permanentemente sottratta. Tuttavia, sprecò tutta la sua forza, invecchiò prematuramente e sentì spezzarsi le ali. Non cadde all’improvviso. Intorno vedevano da tempo i segni della sua sofferenza, ma immaginavano bastasse un po’ di riposo perché ritornasse allegro e dinamico. Ma avete mai visto un uccellino ignaro della leggerezza? Capiva perfettamente di stare precipitando. Sapeva che se ne sarebbe pentito, che non era sicuro di avere trovato una strada migliore oltre lo schianto. Ma non si può lottare contro il proprio destino. Così l’uccellino accettò la sua inesorabile caduta, ripensando ad ogni sgraziata perdita di distanza dall’immensità verso la terra, a tutte le principali occasioni di felicità della sua vita. Morì pieno di ricordi, con le lacrime asciugate da un raggio del suo Sole, che lo accarezzava, finalmente, mentre mosche e vermi ne divoravano le interiora.


Quanti stanno cadendo intorno a me? Quanti sono caduti, quanti cadranno?
Proteggi Dio tutte le nostre cadute. Fa’ che siano soffici e che oltre lo schianto ci sia ancora vita, ancora bellezza, ancora amore.

sabato 19 novembre 2011

Orlo-Sylvia Plath

La donna è a perfezione.
Il suo morto

Corpo ha il sorriso del compimento,
un'illusione di greca necessità

scorre lungo i drappeggi della sua toga,
i suoi nudi
piedi sembran dire:
abbiamo tanto camminato, è finita.


Si sono rannicchiati i morti infanti ciascuno
come un bianco serpente ad una delle due piccole

tazze del latte, ora vuote.
Lei li ha riavvolti

Dentro al suo corpo, come petali
di una rosa rinchiusa quando il giardino

s'intorpidisce e sanguinano odori
dalle dolci, profonde gole del fiore della notte.

Niente di cui rattristarsi ha la luna
che guarda dal suo cappuccio d'osso.

A certe cose è ormai abituata.
Crepitano, si tendono le sue macchie nere.

domenica 13 novembre 2011

Arrivederci, addio

E rinnovo lo sguardo,
tuffandomi in differenze e sorprese
che azzerano l’istinto abitudinario,
solo per indagare più a fondo
la fragile natura umana,
stanca di antichi discorsi.
Cercare familiarità
Sfidare estraneità
Accettare estraneità
Annullare familiarità.
Sperimentare ed accorgersi
Che “io” sta
Tra l’esperienza ed il nulla,
come il riflesso mobile
del cielo turchino
nella pozzanghera gialla
di un vicolo di periferia.

Abusare del non senso,
liberare la parola,
liberare l’oscuro
ed inseguire la sorgente
che, calda, grida ancora ostinata
che non mi sono perduta.
Questa resta
La dolce mia tregua
intrisa di illusioni.
Come se d’ora in poi
Non stessero ad aspettarmi
solo fanghiglia, rughe
E sangue rattrappito.

Eppure, già adesso,
Ferito, umiliato,
distante dalla sua stessa pelle
e minacciato dai suoi stessi organi,
il mio giovane corpo vecchio
sussurra note
opache al cuore
e resistenti al tatto;
e s’imbeve nel succo aspro
dell’oblio di scene atroci,
quando rannicchiato
subì la rovina del tempo
contro braccia grigie
e tumefatte dall’idiozia
di chi, senza stile,
pretese diventassi
il compasso delle sue folli ambizioni.

Potere ed amore non andarono mai d’accordo.
Ed ora che finalmente ti perdo,
solo adesso potrei tornare cerbiatto
che impara a rispettare
le urla malvagie e sincere
del ferro e del fuoco,
sfregati l’un l’altro
fino all’ultimo respiro dello stomaco,
in cui riposi in pace.

L'interno

Anima.
Solida, fluida, fatta di aria,
vento, piogge,
grandini e temporali.
Anima che a volte si secca
e diventa arida come una steppa.
Anima che insegue balorda lo splendore,
lasciandosi guidare da passioni
che ne divorano l’interno divenire senza meta.

Anima che si avviluppa in contraddizioni
e non si lascia spiegare,
perché vive di improvvise ispirazioni
e continue incertezze.

Anima che si percepisce appena negli occhi
e viene conosciuta di sfuggita
mediante incauti stati, che
, come ogni passato istituzionalizzato,
non bastano a dare ragione
della sua grazia eterna.

Anima che è dialogo e silenzio,
quiete e lacrime nere
che nessun uomo saprà mai pesare,
Anima il cui valore più alto
resta l’Amore per tutte le creature
ed i morti che nel suo variegato diventare luogo,
ora estraneo, ora familiare,
l’hanno attraversata, trafitta,
sempre modellata,
rendendo distante
quella delle origini.

Anima abituata a trascendere
ogni momentanea soddisfazione,
Anima che spezzerà sempre ogni catena,
crescendo come l’Anima del Mondo,
incapace d’arrestare la sua inquieta
e nobile espansione errante.

Anima che, tuttavia, spesso vacilla
e, come un lupo impotente,
affamato del nulla,
si gonfia per resistere invano
al suo decesso.

Ma poi, perduta nella meraviglia,
l’anima si fa bella,
sognando limpidi istanti
di pura gioia
da sottrarre alla menzogna della Storia caina
e, cercando luce che l’accechi dolcemente,
ingoia la sventura
di non potersi mai fermare a specchiarsi in un solo volto. Così, impaurita tutti li rammenta assorta come i trampolini da cui librando in aria si è gettata a capofitto nella vita immensa in cui fluttua fino al passaggio dell'ultima soglia

martedì 4 ottobre 2011

Nota su fb di un anno fa

Dedicata a Marco, Patrick e Norman, che per un secondo pazzo non seppero più cercar bellezza

Scrivi una nuova nota

Perchè? Su, perchè? Non è meglio tacere? Certo che lo è, ma devo condensare da qualche parte la furia di pensieri ed amarezza di queste ore.

Rinunciare al riconoscimento è possibile per un uomo?

Dopo parecchio errare, forse riuscirà a fare a meno dell’opinione altrui. Della propria opera no, o, meglio, con molta più difficoltà.

Sono stati i Greci ad insegnarci quanto sia essenziale la fama. Lasciarsi riconoscere per alcune virtù ben codificate era alla base del vivere in comunità. Chi meritava il riconoscimento fino a Socrate erano sovrani, guerrieri, in seguito atleti. La rivoluzione socratica rovesciò i termini entro cui misurare la validità di un uomo, operazione ritenuta da Nietzsche criminale, instauratrice di quell’etica degli schiavi di cui il cristianesimo non sarebbe che un degno figlio. Vitalismo versus cura dell’anima. Ecco i grandi temi gettati fin dall’inizio tra i copioni susseguitisi nel grande palco della vita occidentale per millenni.

"Non cantata, l’azione più nobile morirà". Pindaro, frammento. “Non omnis moriar”, Orazio, Odi, III, 30 6. E così questo bisogno di non morire, aggrappandosi alla speranza che le tracce, almeno quelle, siano eternamente mediate perché ben curate e lasciate generosamente all’eternità, ha condizionato tutte le altre epoche, che si sono volta per volta trasmesse qualcosa attraverso il segno scritto. Conservando e (ri) creando. Per alcuni è sintomo di un'ingorda volontà di potenza, ma credo che si confidi nella propria opera, perchè si ha consapevolezza di essere estremamente fragili e l'unica cosa che si possa modellare sfidando il tempo è un dono da lasciare agli altri, che potranno, se vorranno, riconoscere parti dello spirito dell'autore. Tuttavia, anche l'assenza di tracce ordinate, l'opera incompiuta ed interminabile può e deve essere considerata, oggi più che mai, l'eredità di chi non c'è più.



Si cade. Prematuramente o meno, si cade. Per poi rialzarsi o per restare giù, si cade.

Caduti in battaglia. Caduti sul lavoro. Fallen in love. Ed in generale, sempre in piedi non si può stare. E quando si cade e si vorrebbe restare rannicchiati in posizione fetale ad osservare la vita che scivola sulle nostre paure, perché dovremmo rimetterci dritti e continuare ad andare? Non è stando a terra che possiamo opporci al passaggio? Farlo passare e sconfiggere il suo scorrere, non duellare più in questa lotta per l'esistenza, che scova i suoi vincitori quasi sempre tra coloro che meglio sanno adattarsi alle regole del proprio tempo.

In piedi, ci si confonde con coloro che si rialzano senza avere imparato nulla dalla caduta, assetati di vittoria, innamorati della rapidità della camminata ritmica, alla cui frequenza non nasciamo tutti egualmente predisposti.

Chi si alza, non si piega. Procede. Rapidi momenti di imbarazzo e cordoglio per gli altri rimasti a terra, ma nessuna bandiera che interrompa la corsa, come per quel giapponese di diciannove anni che correva troppo, giocava con la morte, ma non meritava di andarsene nell’indifferenza di tutti.

Poi, come fu per Marco sette anni fa e per Patrick qualche mese fa, qualcuno pare prendere coscienza dell’indecente danza voraginosa del nostro tempo vuoto, che miete ovunque infelicità... ma dura pochissimo e poi tutto torna come prima. Ed un due e tre, ed un due e tre… come un’insostenibile aerobica insegnata da un maestro con pile duracell in qualche palestra dall’aria appiccicosa… inspira, espira, gamba destra in su, guardati allo specchio, segui me, sorridi, ancora uno sforzo, su, su, vai, bravo, bravo..continua, bene, bene, beneee

Che bei sorrisi smaglianti a sostenerci. Che belle formule inneggianti alla vita, al suo valore, alla sua meraviglia! Nessuno pare accorgersi della nevrosi vitalista in cui si consuma il nostro tempo, di quanto tremendo timore di morte lo divora. Oppure è tutto un modo per esorcizzare, già. Ed uno dei contenitori di esorcizzazioni più lampanti è il social network, come testimonia l'esistenza di questa nota.

Ogni icona pronta a dire la sua, a vomitare la sua opinione intorno ad ogni caso di caduta, reso un momentaneo possesso del vociare dei più, violando il suo non voler essere un fenomeno, magari. Nemmeno un esempio da prendere in considerazione. Solo una caduta. Ebbene, cosa state lì a piagnucolare? Non fatelo se quello che vi interessa è solo produrre e viver sani e belli, non vi fermate. Ed un due e tre, ed un due e tre…

Se invece sentiamo che appartiene anche a noi quel dolore, quel terrore di non avere futuro per le colpe dei padri ricadute sui figli che hanno dipinto un'Italia di vecchie figure, spesso squallide…se inquadriamo la morte di Norman nella logica di un Paese paralizzato dalle raccomandazioni e che non tiene conto dei meriti, non li incoraggia a risplendere..beh, contempliamola con rispetto lo stesso, senza gridare, senza esprimerci in termini di condanna socio-politica, pronti a cercare ovunque colpevoli da scannare, generalizzando a più non posso, per favore... Non è che un modo banalissimo, incapace di rendere davvero conto di cosa significhi una perdita. Finirebbe con mettere addosso a Norman un'etichetta, quella dell'eroe senza futuro dei nostri tempi e dimenticarcene rapidamente, senza lasciare che rimanga necessario provare tormento per il suo gesto, che non va spiegato a tutti i costi, ma dovrebbe restare ferita profonda, segno di un fallimento collettivo, disarmante, che impone una domanda aperta sul senso/non-senso della sua morte.

In realtà, stiamo cadendo tutti. Solo che in troppi preferiscono ritenerlo inessenziale.

Ci nutriamo delle morti altrui per creare un’immagine della nostra e rigettarla in fretta. Andiamo ai funerali ricordandoci all’improvviso di tutto quello che non abbiamo ancora detto e fatto e raccomandandoci di cambiare profondamente alcuni atteggiamenti e mentalità che ci hanno reso distanti persone care. Fugaci bilanci, disattesi non appena rientreremo nell’eterna distrazione, connotazione ontologica del nostro tempo.

Distratti dalla morte. Una vita che non si rende conto che è tale perché stagliata su un fondo nero al quale torneremo necessariamente è un’illusione patinata che corrode il centro nevralgico dell’esistenza umana. Il suo rapporto con il tempo.

Mutilato della possibilità di piroettare indietro verso le origini e di profilarsi destini imperscrutabili con progetti a lunga scadenza, l’immaginazione e persino folli amori da cantare un domani, il perpetuo presente di oggi rischia di diventare il letamaio che accoglie tutte le nostre insulse esistenze. Un presente che raramente è vivente.

C’è chi decide di sfidare la morte, inseguendo una goccia di splendore. Una scommessa d’eternità, come sono la poesia, la musica, la danza, il teatro, il cinema o persino grandi imprese. O la filosofia, dono eccelso, eredità suprema, che per me continua ad essere, malgrado tutto, l' apice di ogni ricerca razionale dell'Occidente.

E c’è chi si imbeve di nichilismo per addomesticare ogni tormento e livellare ogni azione, dire e sentimento, non avendo più alcun’ansia di mostrarsi e dimostrare alcunché.

Mi accorgo che comunque da ogni modo di essere adottato lasciamo che scaturisca un’infondata rabbia verso qualcosa di esteriore, le strade imboccate dagli altri, senza mettere fino in fondo in luce i nostri stessi limiti.

Anch’io, adesso, con chi ce l’ho precisamente? Quale vita impersonale sto descrivendo? Quale meschinità sto cercando di criticare? Probabilmente unicamente la mia. Perché la verità è che non ce l’ho più con nessuno. A furia di lottare, pensare contro, osservare da vicino il nemico che cambiava continuamente sembianze dentro e fuori da me ed ipotizzare resistenze varie, ho perduto fiducia nella possibilità di distinguere fermamente il bene dal male, preferendo “economizzare”la violenza con un'eccessiva diplomazia ed un'ingenua generosità verso persone che non hanno bisogno davvero di me, non ora..sto recitando solamente il rifiuto del riconoscimento in ambiti dove ho avuto l'onore e l'onere di introdurmi grazie al mio lavoro, che ormai dimostro, in fondo, di disprezzare non impostando tutta la vita sulla ricerca, come fanno soltanto coloro che credono in questa fatica intellettuale... come facevo anch'io. Sono caduta da un pezzo, nessuno se n'è accorto. Hanno cercato di farmi capire come fosse normale, sono riuscita a consolarmi con la logica del "così fan tutti". Ma adesso è giunto il momento di alzarsi e ricominciare a camminare a passi lenti, come spetta a me.

Il cuore è spezzato perchè non può tollerare che a ventisette anni si muoia così. Sento e presagisco la solitudine di Norman, ma non me ne approprio, non la utilizzo. Lascio che mi trasformi, custodendola per quel che posso riuscire ad intuire essa sia stata.

Non c’è nessuno sbocco effettivo per il filosofare. Nessun traguardo spetta a tutto quel domandarsi inquieto, cercare tracce,tradurle senza tradirle, scovare pubblicazioni non prese in considerazione da nessuno, ideando un gioco di concetti implacabile, che dall’esterno verrà sempre giudicato inessenziale. Non c’è certezza alcuna di vedere premiati quegli sforzi, nessuna logica asino-carota. Ci si nutre di pensieri, intuizioni e questioni che di rado entusiasmano la massa. E si resta isolati ed incompresi, speranzosi che almeno nell’Accademia, tra simili, sia consolidata una fiducia smisurata per i nostri sforzi. Ma il dialogo tra colleghi è sempre più difficile, così come quello tra studenti e docenti, eccezioni magnifiche a parte che ho avuto la fortuna di sperimentare e cui manifesterò sempre profonda gratitudine.

In questo momento tutti nella famiglia, tra gli amici di Norman ed in facoltà si staranno interrogando sulle proprie responsabilità.

Io Norman non lo conoscevo. Il suo viso me lo ricordo benissimo, l’ho incontrato tante volte, ma è già significativo della distanza che si può instaurare tra colleghi il fatto che non avessi alcun rapporto con lui. Colpa mia, sempre troppo lontana dall’Accademia, malgrado il ruolo ricoperto che mi costringerebbe a vivere prevalentemente lì, lo so. A che serve studiare a casa, se esistono le biblioteche?

Ora so con chi ce l’ho. Ce l’ho fondamentalmente con me, che questo posto probabilmente non lo merito come lo meriterebbero altri, come l’avrebbe meritato lui. Ormai Norman era quasi arrivato al capolinea del suo dottorato. Bastava poco per avere un titolo. Ma gli sarà sembrato atroce riuscire ad arrivarci, ed in fondo inutile, e questa sensazione io ce l’ho già un anno prima.

Se non si trasforma in passione totale per la ricerca, la consapevolezza di questa caduta è solo una lacrimosa, insensata azione melodrammatica del mio cervello stupido. Se non diventa un modo per affermare in modo più forte il diritto allo studio e la necessità di confrontarsi di continuo con colleghi e docenti, scoprendo le proprie manchevolezze senza sentirsi delle nullità, sarà come se Norman non fosse mai morto. Come se non avessimo capito perché ciò è accaduto. Ed un due e tre, ed un due e tre…

Perché è accaduto? Una risposta univoca non sarà mai possibile. Di sicuro ci si lancia nel vuoto perché il calore non lo si avverte davvero più, forse è recepita come finzione anche la disponibilità da parte di alcuni a misurarsi con le problematiche interiori, e la liberazione dall’angoscia si sente che non possa passare altro che da un atto estremo, non dall’amore disinteressato, capace di lasciarla esplodere in rivoli di dialoghi continui con persone che sanno ascoltare, o almeno ci provano...Riuscire a tirare fuori parole dure, che sfibrano, ma che non si può fare a meno di lasciare imbrigliate da qualche parte, aspettandosi una correzione, un cenno di soddisfazione o una punizione. Ecco perché il riconoscimento per un uomo è necessario. Abbiamo bisogno di affidare a qualcun altro il nostro verbo, sbagliato,sempre troppo umano, perpetuamente da limare in uno scambio continuo che solo la morte può giungere ad interrompere.

Chi non parla con nessuno sta sempre male? Forse no. Le fratture sono indispensabili tanto quanto i dialoghi. Ma quell’inesprimibile che ci accompagna rischia di originare sillogismi inesatti, contrari ad ogni legge di natura, se non tentiamo di sfidarlo in un’approssimata vicinanza dialettica. Porgersi fuori da essa, porgersi cioè fuori dalla vita, accade quando gli altri sono diventati, se non addirittura complici del proprio malessere, solamente freddi ostacoli, incapaci di interagire adeguatamente con le proprie visioni. Ma in realtà nessuno è mai riuscito a spiegare perchè dovere stare al discorso, perchè cercare equilibrio ed aver contezza che ciò che indossiamo volta per volta sono soltanto maschere e tragedia, satira, commedia si alternano senza sosta all’interno del nostro stesso più o meno lungo tragitto vitale. Certo, è facile dire che ci vuole ironia e si debba capire come ci sia una distanza impossibile da colmare tra il soggetto che agisce, cerca il suo essere e si sforza di accettare il suo dover essere, restando fiducioso e timoroso del suo poter essere da una parte e la vita stessa, oltre il soggetto, qualcosa la cui radice rimane misteriosa, ripugnante o divina che sia, in ogni caso non a disposizione di nessun essere vivente, dall'altra parte. Facilissimo ammonire coloro che si illudono di essere i registi del loro esistere e perdono di vista la tensione verso quel vitale che rimane sempre inafferrabile per tutti. Facile, troppo facile, parlare come Gadamer ed elogiare la misura , ciò che ci consente di individuare il punto limite entro il quale non è possibile andare, perché l'essere umano non smette di muoversi intorno ad una dialettica infinita tra creazione ed autoconservazione, che restano entrambe peculiarità originarie del suo essere, che misto nasce e misto (di bellezza e di orrore) morirà.





Quando Marco morì, rimasi per mesi a scrivere su di lui, senza poterlo dire mai a nessuno. Non era mia quella morte, perchè non era stata "mia" quella vita, ma semmai di alcuni tra i miei migliori amici che con Marco condividevano giornate e notti intere. Io ho avuto l’onore di uscire con lui e gli altri ogni tanto, parlargli talvolta all’università, dove capitava fumassimo qualche sigaretta insieme, niente di più. Ma non me lo sono dimenticato, perché il suo sguardo è impossibile da dimenticare. Da allora sono andata sempre di meno in facoltà. Ed ancora oggi, mentre al teatro Gregotti giù si dibatte su Benjamin e su S.Tommaso, in silenzio sento il potere fortissimo delle sue immagini alle spalle, su quel muro dove le hanno raccolte, senza targhette né illustrazioni di alcun tipo che pretendano di dire chi fosse Marco.

Tracce, lasciate lì, perché qualcuno si ricordi di lui, mentre intanto gli studiosi, i suoi colleghi ed i suoi professori, continuano ad ingrossare la “ricerca”.

Non ho la forza di tornare al settimo piano, dove qualche tempo fa trasformavo in chiave estetica la rabbia ed il terrore, pensando intensamente a quel momento, come se fosse stata anche colpa mia. Perché quel senso di corresponsabilità non è mai svanito e non è semplice addomesticarlo.

Non si può spiegare il dolore, mai. Inutile interrogarsi sulle ragioni, immergersi in continue domande sul senso del riconoscimento, la libertà e la decadenza dei tempi. L’essere e il dover essere. L’apparire che uccide l’essere. Basta. No, ormai non piango più. Perchè lo sto facendo. Non ha senso. Lascio che la disperazione mi faccia sanguinare interiormente, ma non voglio esibirla, perché io sono fortunata e non ho diritto di partecipare a riti solenni di cordoglio per la morte di questo mio collega.

"Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione. Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto: "Non c'è altro da vedere", sapeva che non era vero. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si è visto in estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha cambiato posto, l'ombra che non c'era. Bisogna ritornare sui passi già dati, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre. Il viaggiatore ritorna subito. "(José Saramago)

Io, che ho tanto cui aggrapparmi, continuo questa replica continua, tornando ogni volta indietro, a rivedere qualcosa, a sperare ci sia altro da vedere, ma senza correre, senza nevrosi insensate di dovere stare al passo orgogliosissima del portamento e delle mie visioni. Perché chi è caduto o non può camminare abita in me. Ed è quel dolore ad impedirmi di trovare allettante la corsa verso l’abisso. Perché non vince chi arriva prima. Forse non vince nessuno. E l’esigenza di essere competitivi è la più ingenerosa invenzione contraria all’umanità che il nostro tempo utilizza a iosa per creare gerarchie idiote ed ingiuste, che lasciano ai margini troppe persone di valore, che personalmente non ho alcuna intenzione di oscurare con una folle, smisuratacorsa, dimentica di ogni caduta.



Ma perché pria del tempo a sé il mortale invidierà l'illusïon che spento pur lo sofferma al limitar di Dite? Non vive ei forse anche sotterra, quando gli sarà muta l'armonia del giorno, se può destarla con soavi cure nella mente de' suoi? Celeste è questa corrispondenza d'amorosi sensi, celeste dote è negli umani; e spesso per lei si vive con l'amico estinto e l'estinto con noi, se pia la terra che lo raccolse infante e lo nutriva, nel suo grembo materno ultimo asilo porgendo, sacre le reliquie renda dall'insultar de' nembi e dal profano piede del vulgo, e serbi un sasso il nome, e di fiori odorata arbore amica le ceneri di molli ombre consoli. Sol chi non lascia eredità d'affetti poca gioia ha dell'urna; e se pur mira dopo l'esequie, errar vede il suo spirto fra 'l compianto de' templi acherontei, o ricovrarsi sotto le grandi ale del perdono d'lddio: ma la sua polve lascia alle ortiche di deserta gleba ove né donna innamorata preghi, né passeggier solingo oda il sospiro che dal tumulo a noi manda Natura.



(U.Foscolo, Dei Sepolcri).



Come donare alle anime cadute un frammento d'eternità? Non ci sono risposte, ma sfido ancora un pò il silenzio decoroso che mi spetterebbe, esortando principalmente me stessa a considerare che se pietà, riconoscimento e gratitudine sono mancate a tanti amici ed amiche fragili mentre erano in vita, non possiamo far altro che onorarli con misericordia infinita adesso, prendendo in consegna il loro tormento, senza troppa retorica.

Lasciare che vivano attraverso di noi, in un dialogo interiore che prosegue ininterrotto è la sola maniera per non perderli per sempre. E sforzarsi di partecipare ad un dialogo con i vivi che salvano ed aspettano di essere salvati tanto quanto noi, resta l'unico tentativo per tentare di non ritrovarci di nuovo analfabeti in queste situazioni crudeli.

Sarò pure poco "teoreta" e molto bambina frignona, ma qualcuno sa dirmi quale traccia ed eredità conta più lasciare, se non quella degli affetti?

Poesie di un giorno d'estate 2011

Poesia con la A
All’alba, angosce aderenti all’anima
Annunciavano agnizioni adamantine.
Avveneristiche applicazioni
Annerirono ardimentose avversioni
All’Attualità acre.
Anticamente aggredii ansie articolate
Aprendomi all’Assoluto.
Adesso, anniento allegrie
Acquistando annoiati attimi,
annotando assenze amorfe, arbitrarie apprensioni,
aleatorie accelerazioni a-ritmetiche.
Attendo ancora Amore?
Avvinta, ausculto acredini ataviche
Accogliendo animalità arroganti,
augurando agli amici accecati
amene avventure avvilenti.
Altrove, apparirà Aurora,
affidabile amica abbandonata,
agonizzante aura, americanamente assorbita.
Attraversando asperità aporetiche,
adombrando apnee astiose,
alloggerò arresa,
aspettando anche altri arrivi.

Poesia con la E


Eventi esaltanti
Eccitano egemonici energumeni
Esportando eccessi
Evitabili ed essiccanti.
Essenzialmente è estetica.
Evitare elucubrazioni ed eludere.
Evasive esplicazioni
Espandono estasi,
estinte enunciando ed esperendo
evasioni ebbre.

Poesie con la i

Inutile insistere,
Inappropriabile io!
Irrigidirai incessantemente
Incanti inenarrabili,
immaginando, indugiante,
inesistenti infiniti
inseriti in idiomi insonni.
In incerti istanti, invece,
incontreresti intatte intuizioni,
impossibili insieme, inevitabilmente.
Illuminati ignorando, idiota idealista!

Poesia con la O


Osserva: occorre odiare orde, occultare.
Osannate opinioni offerte ogni ora
Offendono onorabilità.
Occasionalmente organizzai ondeggianti orchestre,
ostinandomi ottusamente, oltre ogni opportuno ostacolo.
Ordire oscene orazioni, onerosi orpelli,
ospitando ostili ovulazioni
obliteranti ombre,
Offuscò ozii orgogliosamente onesti,
ottenendo oscuri oblii.
Ormai ordino odiosamente ogni ossuta opportunità
Orientando ovvie occasioni
Ove opacizzarmi obbligatoriamente.
Opzioni:
obbedire ormeggiando,
oppure osare origliare, oltre orchi ora ottenebrati, ora offesi,
opere omnie, odorose orchidee orientali, orme o oggetti oftalmici
onde onorare, omologandomi, odierni orizzonti obesi?

Poesia con la U


Un’unica udienza uccide umbratili unioni,
urtando usanze universalizzate.
Urge un utile ufficio:
uscire,
udendo ugule ubriache urlanti.

giovedì 29 settembre 2011

MESCOLANZE

C’era una volta una mescolanza tra le fragili parole umane ed un principio astratto, che più astratto non si può concepire, che si chiamava “armonia”.



Se l’erano inventato alcuni Greci, proprio i progenitori di quella terra con la merda fino al collo che ha innescato la crisi economica più imponente dal secondo dopoguerra, la crisi che sta facendo tremare la nostra folle Europa, unita da diverso tempo solo da una moneta, giacchè una storia millenaria di battaglie ed imperialismo sfrenato, inscenato per tragici manciate di decenni dai potenti di turno, alla fine non era riuscita a trovare nient'altro di meglio che quest'uniforme. Cosa attendersi, del resto, da un passato di discriminazioni continue, spropositato potere ecclesiastico, un olocausto che non fa piangere più nessuno e solo qualche raro momento speso a cercare, contro tutte le autorità ed in favore del fuoco che brucia dentro e da cui nasce ogni bellezza, quale dovesse essere il posto dell’uomo nel cosmo? Iniziata in nome dell'humanitas terenziana, attecchita in Italia con il Rinascimento nel Cinquecento, e proseguita con l’Illuminismo ed il Romanticismo per affrontare, sempre diversamente e con rinnovata passione, il rapporto tra gli uomini e la storia, l'arte, la natura ed il sacro, mettendo ora al centro la ragione, ora il cuore, ma sempre condizionando in modo persistente intere epoche e tutte le possibilità espressive dei viventi-non soltanto europei-, questa ricerca perse lentamente ogni aura, travolta dai prodigi accecanti della scienza e delle sue mirabolanti applicazioni. Dopo due guerre devastanti per tutto il pianeta, nel Vecchio Continente si era scelto di fare gli adulti, reprimere istinti bellici e trovare nuovi Dei.



E siccome la democrazia, dopo infinite e fiere lotte da parte di molti coraggiosi uomini e donne europei, ormai dimenticati, aveva finito con l'invadere l’Europa e la plebe appariva ormai incontrollabile, si pensò al Dio Denaro, meglio se invisibile. Dopo il fallimento delle proposte rivoluzionarie marxiste, si capì come per tenere buona la massa andava bene solo il capitale, capace di rendere inconsistenti le naturali differenze estetiche ed etiche ed uniformare nella rassegnata lotta all’accaparramento di qualsiasi oggetto tutte le classi sociali, entusiaste all’idea di poter produrre sempre di più e fare crescere le finanze del loro paese d’appartenenza. Mentre nella campagna la tecnica uccideva rapidamente antichi mondi agresti-con buona pace di Pasolini- in ogni luogo dell’Europa, l'esile frontiera urbana che separava questo scellerato continente, sempre più soffocato dal cemento, era solo economica: da una parte c’era chi guadagnava tantissimo e dall’altra chi riusciva a stento a sopravvivere. La legge del mercato, condizionante ogni epoca passata, si era fatta totalitaria. Non sottomettersi ad essa, significava rinnegare di essere europei.





La frammentarietà europea aveva, nel frattempo, trovato modo di innalzare una nuova Torre di Babele, grazie al linguaggio ed ai nuovi usi derivanti dalla tecnica. Beh, non ci si poteva certamente aspettare di sentirsi fratelli perché legati da tradizioni condivise, sperimentatori di culture differenti e spinte solo di rado al rispetto autentico, senza riserve, della bellezza e sacralità della vita in ogni sua parte, certo. Così, uniti dal Dio denaro, più o meno tutti gli europei si comportarono come merci, perdendo sempre più di vista la differenza tra mezzo e fine ed avendo sempre meno cura di preservare l'intimità stessa dal commercio continuo con gli altri esseri umani.



Tuttavia, anche se sedato ed in buona parte lobotomizzato, il vecchio Continente intuiva di vivere in uno stato di calma apparente, forse più inquietante di quello conosciuto durante la Guerra Fredda. Di sangue non se ne spargeva più da decenni perchè la corsa alla civilizzazione aveva ormai rivoluzionato il volto dell’Europa, che preferiva sfogare altrove la sua sete di potere.



Dal crollo delle Torri Gemelle in quel Nuovo Continente con cui l'Europa cominciò crescentemente ad entrare in competizione, assimilandone rapidamente la cultura pragmatica poco propensa alla riflessione, il terrore di essere minacciati da oscure potenze rendeva isterica la maggioranza della popolazione europea.



Ma poi, un bel giorno, il capitalismo fallì. E la parola d'ordine "sicurezza" dei politici europei non riusciva più a tranquillizzare l'Europa.

Fu allora che, accorgendosi finalmente come quello che appariva ancora un miracolo economico era stato una solenne bugia, e che non solo i cittadini, ma gli stessi capi dei Paesi europei non erano che pedine di un gioco molto più grande i cui padroni erano le aziende petrolifere, le banche e le case farmaceutiche, tornò voglia di quella mescolanza, dimenticata da tanti, pressochè tutti gli abitanti del continente europeo. Si sentiva l’urgenza di un nuovo ordine, si cercava una nuova visione del mondo rispettosa della natura, cresceva il bisogno di confrontarsi senza sbranarsi e senza parlare di interessi economici.

Insomma, era giunto il momento. Quella strana miscela greca avrebbe potuto salvare finalmente l’Europa, ma…non si trovavano più le parole!



Quel principio astratto di cui si parlava all’inizio aveva attecchito, a dire il vero, molto spesso nel sangue europeo. Anche nelle epoche di decadenza, un’attrazione indicibile per tutto ciò che risponde a delle proporzioni, si presenta misurato e privo di ogni eccesso, aveva reso il senso della classicità ancora una traccia ben visibile nel Vecchio continente.



Il rock’n roll aveva fatto, certo, traballare vecchi schemi precostituiti, ma non riuscì mai a dare colpi di grazia definitivi all’idea di una segreta armonia tra le cose e tra le persone. Woodstock unì la gioventù degli anni Settanta molto più che intere generazioni di turisti durante una passeggiata ai Musei Vaticani.. e se si hanno occhi ed orecchie raffinati e sufficientemente anticonvenzionali, facilmente si riscoprirà molta più armonia in un brano dei Beatles che in una statua del Canova.



C’erano stati Picasso, gli happening e la dodecafonia, naturalmente. Ma ancora la sete di misteriosa armonia non si dileguava. Poiché si discuteva dei criteri estetici, infatti, l’armonia veniva presa come termine di paragone continuamente, per dissacrarla il più delle volte, ma nessuno riteneva di non dover più fare i conti con quella nozioncina ideata da Euclide, Platone, Fidia e compagnia bella, che legava insieme la comunità greca, dispiegando il suo potere tanto nelle arti, quanto nella conoscenza, quanto, soprattutto forse, nella politica da promuovere in una democrazia.



Nel parlare, ancora qualche decennio prima dell’epoca cui ci stiamo riferendo, in Europa si cercava ancora di discutere in modo comprensibile, il che vuol dire, tutto sommato, in modo armonico. Si dialogava in modo animato, non si doveva affatto essere d’accordo ed orchestrare un discorso ben composto, quasi come se non si fosse tenuti a dire la propria per non correre il rischio di offendere qualcuno degli interlocutori, ma non era mai venuto in mente a nessuno di rinunciare alla parola e trincerarsi in un codice linguistico frammentario ed incapace, premeditatamente, di raggiungere l’altro. L’incomunicabilità esisteva già, ed era stata esplorata di recente, in fondo, nella stessa Europa..pensate ai drammi di Ibsen, ai film di Antonioni...e l'elenco sarebbe infinito.

Tuttavia, la responsabile dello sfacelo non era ancora mai stata la tecnica, l’arte che, per avvicinarsi alla verità o solo per sopravvivere in qualche maniera agevolando il suo lavoro, l’uomo aveva coltivato dai tempi del fuoco, avvalendosene nel corso dei secoli anche per travalicare le distanze fisiche e restare in contatto con il prossimo.



Il diritto di parlare concesso a tutti aveva ucciso le parole? Chissà, è possibile.



L’eccesso di tecnica di cui l’ingorda Europa si trovò a pagare il fio, per decenni allontanò volutamente gli esseri umani che ne facevano uno smodato uso in maniera quasi incontrollabile. Telefoni, fax, pc, ipad e decine di altri strumenti avvolgevano in una rete gli europei, convinti di essere finalmente al sicuro da una nuova guerra mondiale.



Sempre “connessi”, non trovavano più spazio per ricerche personali di linguaggi più incandescenti e, soprattutto, non avevano più idea di cosa volesse dire stare a colloquio con qualcuno.



Il delirio dei molti, senza nessun’intenzione di cercare affinità che non fossero virtuali ed estremamente aleatorie, non concedeva spiragli di salvezza a nessuno.



Per questa ragione, le parole si erano perdute.



Il cuore dell’Europa si era annerito del tutto. Il gelo invadeva lo sguardo degli svedesi così come quello dei portoghesi. Ci si amava sempre di meno e, quasi sempre, in modo per lo più meccanico. I viaggiatori sinceri, i poeti ed i cantanti erano stati messi ai margini perché improduttivi. Eppure, soltanto le loro parole avrebbero potuto sbrinare il cuore europeo e rendergli chiaro quanto tutti i mezzi del mondo valgono poco se il fine non rimane quello dell’armonia e l’armonia risulta una chimera se non ci sono parole capaci di raggiungere l’altro, senza perdersi nella massa amorfa di segni elettronici e pixel di varia foggia.



Preferire la ricchezza materiale a quella del discorso aveva ucciso per sempre il mondo occidentale.



Un declino inesorabile, un tramonto annunciato da più parti e da tanti, tantissimi decenni.



Ecco cosa si sarebbe realizzato finalmente nell’attesissimo 2012.



C’era una plebe che voleva avere le stesse cose di cui avevano goduto per anni gli europei, quella stessa plebe che era stata sfruttata in modo inenarrabile per concedere il lusso capitalista al Nuovo ed al vecchio Continente. Ed era giunto il momento che finalmente si prendesse la rivincita secolare, trionfando per una volta su quello stesso principio astratto di “armonia”, che, allo stato attuale, veniva ingurgitato solo per essere legittimati a vedere come nemico inaccettabile il caos, perché temibile.



“Meglio un’apologia dell’esistente, seppure marcio, che pensare a nuove forme di convivenza, se il prezzo da pagare è sconvolgere le gerarchie attuali”, pensavano i ricchi.



Ma non riuscirono a fermarli. Una mescolanza nuova si trovava adesso a fare i conti con la vecchia, ed era ovviamente molto più vitale ed energica. Nessuno avrebbe potuto avere dubbi sulla sua vittoria.



Repressione, voglia di riscatto, voglia di nuovo e straordinaria forza fisica, oltre che un’intensità nel sentire il cosmo ed il corpo proprio e dell’altro, con un ritmo sensuale che nessun europeo probabilmente potrà mai aver la fortuna di sperimentare, si mischiavano in quelle sane energie mediterranee, prive di idiote inibizioni legate alla civilizzazione, di cui, almeno inizialmente, i nuovi arrivati intendevano esaltare soltanto la possibilità di sfamare chi fino a quel momento aveva conosciuto solo carestie e guerre fratricide.



Le due “miscele” si trovarono a combattere su un ring nella sabbia di Lampedusa, ma bastarono pochi colpi perché la mescolanza europea venisse atterrata, sostenuta a malapena da un coro di tifosi bianchi, impressionati enormemente dalla flessuosità e dignità di quei corpi che venivano dal mare. Poi, scrollatasi la polvere di dosso ed accarezzando, con un ultimo gesto di atavica pietà europea, il volto nero, la sconfitta trovò le parole che mancavano ed erano, per la prima volta, le più vere che avrebbe mai potuto pronunciare:



“Il mondo è giusto che sia vostro adesso. Il ciclo europeo si è compiuto, fratelli. Riprendetevi ciò che vi abbiamo tolto e siate felici, sforzandovi di non replicare i nostri errori. Siate misurati!”



Riuscii a sentire solo queste parole, poi mi dovetti allontanare, pressata dalla folla mista, che gridava in mille lingue e dialetti differenti la sua felicità o il suo terrore.



La storia viene riscritta dai vincitori, è noto. Per questo, ora che sono tornata a casa e non so cosa sarà di me, vorrei cercare di anticiparla e scriverla anche per i vinti, immaginando alcuni possibili finali:



1) La reazione del vincitore, malgrado il tono sinceramente comprensivo dell’Europa, fu ugualmente vendicativa e ben pochi cittadini del vecchio continente poterono esimersi dal diventare i nuovi schiavi dei neri. Musei, biblioteche, cattedrali e municipii bruciarono in poche settimane in tutte le principali capitali europee. I leghisti riuscirono a gridare “ve l’avevamo detto, stupidi! Allargare le frontiere era un crimine!”appena un attimo prima di essere fucilati.



Sebbene i gloriosi europei dominatori si trovarono pressochè tutti d’un tratto dominati, alcuni di essi riuscirono a scappare. Dopo un viaggio disperato su un barcone e diversi anni in cammino per il deserto, un gruppo sparuto di europei riuscì a rifugiarsi nel sud Africa, ma, pur sforzandosi di mantenersi sobrio, non sopportò a lungo la natura selvaggia e non riuscì, perciò, a lasciare alcuna traccia dell’antica civiltà europea.



2) I neri si rivelarono meno brutti, sporchi e cattivi di quanto non credessero gli europei. Guardarono con pena la mescolanza europea e risposero: “ Ciò che è vostro è nostro e viceversa. Non vogliamo farvi patire ciò che abbiamo patito per secoli, perché anche voi siete figli di mescolanze, anche quando lo dimenticate del tutto. E poi ci piace crede che persino tra di voi ci sia qualche persona buona. Scriveremo nuove leggi insieme e mai più nessun figlio della terra sarà sfruttato, da qui all’eternità”. Dopo essersi ricongiunti con le loro famiglie, accettarono di intraprendere un lungo cammino di reciproca conoscenza. Solo i leghisti e gli xenofobi sparpagliati per tutta l’Europa vennero espulsi, perché incapaci di stare e mescolarsi nei discorsi, senza stancarsi di cercare nuove parole e nuovi ritmi, per ricostruire interamente un mondo nuovo.



3) La vecchia mescolanza europea non aveva neppure finito di dire quella frase, quando giunsero a Lampedusa centinaia di navi ed aerei americani, cinesi, australiani e giapponesi, con tutte le loro bizzarre mescolanze. “Dovrete vedervela con noi!” gridò un colonnello americano, “ Potete pure restare qui..Il petrolio è nostro!”, urlò un aviatore giapponese. E fu tutto un parapiglia, che durò per ore ed ore, senza che nessuno riuscisse a rasserenare gli animi. Poi, d’improvviso, nell’acqua si creò una gigantesca voragine ed emerse un Tritone che così imponente e regale non se n’erano visti mai nemmeno nella Sirenetta di Walt Disney. Arraffò cinque, sei nuvole e le avvicinò alla spiaggia.

“Salga qui soltanto chi ha il cuore pulito!”-intimò- “E vedete di non fare i furbi, terrestri, perché chi dice menzogne, salito sulla nuvola ne verrà inghiottito per sempre”.

Raccolti i neri e qualche altro gruppetto di europei, cinesi, giapponesi e americani, Tritone sollevò con un braccio la nuvola colma di esseri umani di tutti i colori, mentre con l’altro accarezzava la superficie del mare, innescando uno tsunami che nel giro di poche ore travolse tutta la superficie terrestre. Non era rimasto più suolo calpestabile né l’ombra di un malvagio. E dall’alto del cielo i buoni ricominciarono a cantare, poetare e raccontare le loro storie, fino a che non morirono tutti di sete e di fame, ma contenti.





Prepariamoci alla fine o ad un prodigioso cambiamento..ogni fine, in fondo, è un inizio.



Es ist gut.

sabato 30 luglio 2011

Se non spera non troverà l'insperato (e negherà che si dia l'in-spirato)

Ci sono cose che esistono ma che non riusciamo a vedere perchè siamo come ciechi, assorbiti dalle nostre private congetture; altre che non esistono ma continuano a sembrarci reali e di cui parliamo come se fossero viste da tutti; altre ancora che vediamo solo noi e che restano invisibili agli altri, com'è giusto che sia.
Il mistero della bellezza è quello che ancora tiene in piedi molti ricercatori d'oro, incapaci d'arrendersi ad accettare la consumazione che divora se stessa imposta dal loro secolo, e decisi a sfidare le leggi del tempo che sottrae l'incanto, un attimo dopo averne mostrato una sua piccola, indimenticabile parte.
Sono costoro degli anticonformisti ? In un mondo livellato, appariranno probabilmente tali. Ma sono persone normali, certamente distanti dall'americanismo infiltrato anche nelle ossa ed ostili ad ogni tipo di semplificazione, che sanno come ognuno sia un mondo a sè e che ciò che lega tutti in fin dei conti sia solamente quella porzione condivisibile attraverso la lingua e tutto ciò che dal linguaggio deriva, ma che è così poco decisiva nella storia fitta di turbolenze del singolo da suscitare in loro ripetute disapprovazioni e fasi di rigetto totale dell'idea di "appartenenza".
I ricercatori d'oro sanno che le esperienze non possono essere narrate, così come i piaceri ed i dolori più grandi non possono venire in alcuna maniera indicati e resi percepibili a chi solo perchè ha un organismo umano ed è mortale non è immediato affatto riconoscere appartenente allo stesso genere.
Essi amano più le differenze delle identità, ma non si stancano comunque di cercare affinità, sapendo bene quanto proprio questa sia la cosa più difficile da trovare sotto questo cielo.
Camminano con magliette speciali con scritte che brillano al sole, del genere "Vuoi salvarti con me?" o "Cerco un affine". Ma vengono abbracciati più da topi e da maiali, che non da qualche essere umano intorno, poco disposto ad ascoltare veramente le loro sciocche elucubrazioni.
Del resto, la loro solitudine si confonde con quella stratosferica della "massa", ma i ricercatori d'oro hanno fiducia nella potenza della cultura, speranza che nell'aprirsi al mondo con curiosità, tante domande e raffinata sensibilità non ci si faccia contagiare dalla stupidità cosmica dei dormienti e dagli slogan che popolano tanti cervelli intorno.
Vivono per distinguersi solo per potere distinguere, sospettando sempre più tragicamente che ad estinguersi comunque alla fine saranno loro.
Hanno sognato le rivoluzioni come tutti, hanno vissuto le crisi della politica come tutti, ma senza mai lasciarsi irretire nella logica di dominio che guida la società occidentale.
Hanno tenuto gli occhi aperti perchè la poesia non tramontasse, le orecchie rizzate perchè un suono nuovo li sconvolgesse, le mani protese verso un volto triste cui offrire una carezza, il naso ben sturato per mantenere familiarità ancestrale con le cose importanti e respingere vizi e scelte improprie, ed hanno tenuto la bocca sempre più spesso chiusa, per non coprire con i loro discorsi il ritmo perfetto dell'universo.
Quando andranno via, potranno dire di avere attraversato la vita sfruttando tutti i sensi, trascorrendo le giornate in continua lotta come e più degli altri. Ma ciò basterà loro a pensare di aver vissuto sul serio ciò che contava vivessero?
I ricercatori d'oro smettono di credere a tutto ciò che è possibile navigare con imbarcazioni speciali, ma umane, quando all'improvviso si ammalano o perdono qualcuno.
Colpiti, affondano anche loro. E non conta più nessun'etica della bellezza, a quel punto non sembra più saggio nè interessante scolpire le giornate all'insegna della ricerca della meraviglia.
Non sono più in grado di darsi alla barbarie, l'educazione estetica non riesce a farli essere esattamente come la massa, nemmeno se lo volessero con tutte le loro forze.
Ma feriti, strozzati dal dolore, non sanno più cercare l'oro. Non sono più capaci di farlo. Tutto quel che era in loro potere fino a quel momento si rivela fugace più dell'istinto ottuso che per lo più guida- come amano villanamente pensare- gli altri. La memoria si sgretola, la speranza è in frantumi, le gambe immobili e doloranti, la testa pesante ed il respiro affannoso.
Svuotati improvvisamente di tutto ciò che li ha costituiti finora, i ricercatori d'oro adesso hanno solo un obiettivo: dimenticare, dimenticarsi.
Annientare se stessi, perdendo qualunque interesse per le cose, le facce, i discorsi, la storia, gli aneddoti, i profumi e le musiche più stupefacenti che l'umanità ha saputo creare.
Tutte quelle tracce umane non riescono più a suggerire loro la presenza di Dio. E quello che i ricercatori d'oro stavano inconsciamente cercando da sempre, invece, era proprio Lui.
Aspiravano ad un suo caldo abbraccio, scrutando le sue opere con devozione senza ammetterne la Paternità suprema. Ed ora, incerti e confusi, spiazzati dalla consapevolezza che la stessa bellezza sia un lusso troppo difficile da mantenere quando si è ad un passo dalla morte, elidono tutte le risposte certe accatastate negli anni, non riuscendo a porre argini efficaci ad un dubbio devastante che li attraversa in ogni particella cromosomica, li rende insonni, instabili nelle relazioni affettive, seppur sempre preoccupati per tutto ciò di cui non sanno più prendersi cura come era stato altre volte possibile.
Si stanno chiedendo dov'è. Gli stanno domandando se c'è e perchè li ha abbandonati. Perchè tutto questo dolore, perchè questa trasfigurazione? Se ne sentono la causa, scorgono indietro i momenti topici in cui hanno scelto la strada sbagliata, determinando una serie di eventi discutibili, che li hanno fatti allontanare dalla loro originaria sete d'oro. Ma c'è qualcosa che eccede il loro senso di responsabilità. Il timore che a fare da contraddittorio al Kosmos non sia il caos, ma un piano del tutto soprannaturale, che non si può studiare nemmeno secondo questa contrapposizione così affascinante, che spiega il mondo degli uomini, l'arte e la natura. Ma non si piega, per questo, nemmeno alla psicanalisi, spernacchia Freud, come se, oltre l'inconscio, ci potesse essere ancora qualcos'altro che non si riesce a vedere finchè si ragiona in termini consueti. Fin quando si ragiona, insomma.
Lì non c'è il cosmos con Dio, nè Dio nel caos, nè forse, più terribilmente, il caos in Dio.
Lui non sta più curando i suoi ricercatori d'oro perchè non li ha mai curati davvero. Forse il suo mestiere è quello di dare solo una rapida sbirciatina ogni tanto, come un padre distratto ma indulgente, cui non interessa particolarmente che cosa capita ai suoi figli. Quando questi moriranno, non importa quanto oro abbiano raccolto. Li trasformerà in energia per concedere al pianeta di sopravvivere a sè stesso qualche anno ancora, tutto qui. E poi, finalmente, il suo compito sarà finito. Il mondo finirà. I ricercatori d'oro, i depressi che lo erano stati, i nevrotici che stanno appena conoscendo la perversione nascosta nella loro visione alterata, ebbene tutto finirà in un nuovo Big Bang di segno opposto al primo, che annienterà ogni forma di vita umana, dando un calcio definitivo ad ogni ingenua visione di un Dio-Amore, capace di dare risposte all'irrazionale legno storto dell'umanità, per ingannarlo di essere più buono del cobra e della murena.
Anche una predizione di questo tipo, tuttavia, non scansa la fatica di tirare avanti fino a quel giorno, cercando di non perdersi proprio tutto il meglio che in questa vita può incontrarsi ancora, venire creato, forse ricreato, qualunque sia la sua origine e la sua destinazione, quale che sia la particolare condizione vissuta, la situazione emotiva con cui ci ritroviamo immersi, gettati nell'esistenza, e che varia con noi, come noi variamo grazie ad essa.
Accettare la variazione come la sola formula di resistenza, dunque, può essere possibile solo se ci si illude di poter vivere per sempre, in un equilibrio senza durata realmente misurabile, che tuttavia resta sostenuto da una spes contra spem il cui sapore dolce, se ci si ferma un istante cambiando prospettiva dell'insieme, riaffiora nella nostra bocca facendoci venire l'acquolina di nuovi giorni, nuove albe, nuovi posti e progetti da fare, libri da leggere, discorsi e film con cui intrattenersi, corpi da adorare e da cui lasciarsi amare insaziabilmente. Come se la morte non dovesse venire, non ora. E Dio, buono, giusto, indifferente o vendicativo che sia, se ne stesse comunque alla giusta distanza per una volta, schiacciandoci persino l'occhio quando al timore che osteggia il nostro cuore sappiamo abilmente avvicinare sua sorella speranza e lasciarle fare il suo compito: cambiare aria nella nostra dimora interiore, aprendo tutte le finestre che il terrore sigilla, giocando come un ladro con il nostro respiro che solo la leggera speranza ha veramente "a cuore".
Per tutta la vita ci sarà chi chiuderà finestre e porte e chi le aprirà. Bisognerebbe allora stare attenti tanto all'aria viziata, quanto alle correnti d'aria. Forse non si tratta tanto d'avere paura al momento opportuno, ma solo di non concederle troppo potere, alternandola al moto opposto, che si premura di liberarcene con grazia ineffabile.
La vera disperazione, speranza stravolta come dice il nome, è solo la tirannia della paura, è così semplice ed ovvio che lo si dimentica facilmente.
Perciò, i ricercatori d'oro vanno ad aprire le finestre e si sforzano di respirare a pieni polmoni. Il nuovo big bang si avvicina e non resta loro che aspettarlo serenamente, mantenendo pulita l'aria interiore, da millenni chiamata, non a caso, anima, psychè, alito, soffio di vento..
Dopo tante traversie, i ricercatori d'oro hanno deciso d'essere d'ora in poi solo R-espiro, almeno fino a quando la R per ognuno di loro cadrà. Così, al congedo da questa terra, essi soffieranno via tutta l'aria-aurea negli anni concessi raccolta, perchè chi verrà dopo possa trarne "ispirazione", riprendendo a respirare diversamente, ma in invisibile, eppure reale, continuità con il loro aureo respiro.

venerdì 22 luglio 2011

Lui, Lei e l'oceano

Siamo la sommatoria delle nostre scelte. Introdurre veleni senza interromperne il flusso quando ancora si ha la capacità di intendere quanto siano letali è la prima causa del decesso dell’equilibrio umano, maschile e femminile. Eppure si continua a sbagliare, finendo con il ritenere naturale ciò che non si riesce a rivoluzionare per mancanza di volontà.
Fragilissima creatura, incapace di perseverare nella logica di autoconservazione mangiando il più debole come gli animali, l’uomo ( o solo la donna?) è costretto ad amare per cercare di riprodursi ed in questo modo distrugge sé stesso, a volte la sua parte più fondamentale. Tuttavia questo non accade allo stesso modo.
Assai banalmente si potrebbe dire che l’uomo getta il seme, non sottrae niente al suo essere, anzi lo incrementa. La donna, invece, ovula, può fecondare o no, ma non può che accogliere, fare spazio, venire penetrata, lacerata, ferita. È il dispendio di memoria batailleana, la ricerca di una mancanza d’essere a guidarla, non certo l’autoconservazione violenta di chi impone il suo essere sull’altro con l’intento specifico di dominarlo. La donna, si dirà, si immola, si sgretola, si fa piccolissima e non nasconde le lacrime perché ha bisogno di soffrire per essere biologicamente sana.

E no, e che diamine!
Ricordiamoci sempre di quanto scritto da Anna Koedt nel lontano 1970, in The Myth of the Vaginal Orgasm. Attraverso il mito freudiano della penetrazione, «le donne sono state definite sessualmente nei termini che piacciono agli uomini [...] siamo state nutrite col mito della donna liberata e del suo orgasmo vaginale - un orgasmo che di fatto non esiste».
Come dirà Carla Lonzi: «la donna clitoridea non ha da offrire all'uomo niente di essenziale, e non si aspetta niente di essenziale da lui. Non soffre della dualità, e non vuole diventare uno».

Tutto questo è ignoto ancora alla maggior parte degli uomini. Chi ne è consapevole, invece, è probabile celi con abilità la sua disperazione, ammesso che la conosca sul serio, nel non potere appagare come pensa la "sua donna" e nel dover rinunciare ad esercitare la sua potenza senza timore degli effetti nocivi per chi gli sta accanto.
Forse fa finta di niente e prosegue convinto di dominare sul serio la sua "pupa", regalandole qualche gioiello o prenotando dei week-end che spezzino la routine.
Compagne con cui condividere "occasioni" di fuga, da esibire come trofei a qualche cocktail, senza ostacolare nè la carriera nè il fancazzismo. Questo per molti devono essere le donne, nient'altro, possibilmente mute e con l'elettroencefalogramma piatto.
Che continui pure ad inscenare insulse lotte per il riconoscimento e mai per la riconoscenza, inseguendo ideali di potere che la donna ha sempre trovato ridicoli!
Alla donna della dissennatezza maschile ormai non dovrebbe più importare un fico secco...
Se sono stati i maschi a fare le guerre, lei sa benissimo che è accaduto perché a curare le ferite erano le infermiere (così come infermiera fu una delle prime femministe, Emma Goldman) e perché ad aspettarli a casa erano le mogli e le fidanzate, tradite, dimenticate, con retorica suadente riconquistate, senza che si lasciasse mai loro la possibilità di pensare ad un bene proprio.
Eppure, ancora oggi, la donna spesso dimostra di non sapere affatto cosa ciò voglia dire.
Sono tutte apparentemente pazze le donne – o solo quelle eterosessuali?- che non hanno ancora chiaro quale dannato equilibrio possa mai spettare a chi voglia vivere il sentimento amoroso, senza rassegnarsi all'apatia che rende al confronto più succose persino le vicende narrate nei telefilm americani.
Ancora troppe volte sembra che non si sia compiuta alcuna emancipazione effettiva, che il femminismo sia stata una nuvoletta rosa in un cielo ormai del tutto nero. E questo accade non solo quando si verificano gli ormai noti orrori nelle stanze del potere, tra troione di regime e prostitute consumate dalle logiche contemporanee del "ti mostro il pelo e ti dileguerai, ma prima dammi tutto ciò che hai".
Ci sono donne che quotidianamente, malgrado il recente movimento "se non ora quando", borghese come è borghese questo tipo di femminismo, ancora si distruggono pensando di non valere niente se non sono toniche a sufficienza per piacere al loro uomo. Si sfregiano, ritenendosi, per diverse ragioni, troppo imperfette ed inadeguate. Si svendono, immaginando che nessuno possa trovare loro degne più di quanto non faccia un meschino ciarlatano incontrato per via, dopo tanti esperimenti che hanno solo fatto crollare il sogno infantile del principe azzurro. Sono pronte improvvisamente ad arraffare le briciole d’affetto di chiunque sia disposto a portarle a cena una volta, a coccolarle un po’, farle sentire belle e materne.
Così le loro esistenze svaniscono in un desiderio mai appagato di un coito vaginale che, qualora anche miracolosamente giungesse, non varrà a giustificare tutti quei salti mortali per tenere in piedi una coppia e, poi, forse, una famiglia.
Soltanto i figli, inutile negarlo, rimarrebbero come garanzie che il loro essere abbia un significato profondo e più duraturo. Ma sono sempre meno propense a generare, perchè l'indipendenza economica è un lusso sempre più raro, innanzitutto. E poi perché riconoscersi nel maschio, anche il più tenero di tutti, resta una speranza di impossibile concretezza, giacché l'impressionante mutevolezza del sesso maschile, indebolito e frustrato all'inverosimile, rende ogni compagno decisamente inaffidabile, uno specchio frammentario nel quale ogni riflesso benefico viene presto rimpiazzato da uno mostruoso, che diete isteriche e corse forsennate verso l’ultimo paio di scarpe alla moda cercheranno invano di compensare.
Per fortuna ci sono le amiche con cui trasformare questa desolante situazione in un ironico pomeriggio trascorso a prendere in giro la bassezza maschile, un attimo prima di perdersi in nuove dinamiche di vanità e sottomissione che le renderanno sempre distanti dalla scoperta di un essere alternativo a quello suggerito dalla tradizione.
Insomma, a cosa è servito il femminismo? A rovinare gli uomini, rendendo indefinita la loro "virilità"? A rendere ancora più insoddisfatta la donna etero, pronta a pensare che le "affinità elettive" siano un'utopia e solo le lesbiche possano essere felici?
Non lo so. Ma da quello che ho imparato in questi anni traggo la conclusione che se si sceglie la solitudine, se ci si mette in testa di potere scardinare del tutto questo andazzo, rinunciando interamente al meccanismo perverso della seduzione, si è già fuori dal tracciato della salvezza.
Si rinuncia al corpo, si mortifica un’altra volta la sessualità per il gusto di una preziosa “dignità” che dura poco, come effetto glorioso di una fortunata stagione di determinazione di sapore maschile.
Perciò, l’alternativa mi sa che è non sciogliere il nodo. Rimanere nell’aporia. Accettare l’incomparabilità dei tratti che rendono l’uomo e la donna due isole lontane in un oceano che dipende solo da noi rendere, pur in mezzo a tante tempeste, tutto sommato navigabile, piuttosto che pensarlo inquinato al punto da impedire qualunque avvicinamento.
E quando ci si stanca, non solo nuotare da soli non guasta, ma nessuno assicura che lo scopo sia veramente raggiungere l'altra isola e piantare una tenda lì.
L'importante è uscire fuori dalla propria isola, perdersi nel mare dell'esperienza... e poi sarà quel che sarà.
Perchè, se signori si nasce, donne si diventa.
Fate un bel respiro, perciò, care donne, la partita è tutta nostra, e, giocata con strategia o con buone dosi di pietà che sia, attende tutto il nostro entusiasmo, il bisogno-voglia di scrivere nuove pagine di Storia che non mortifichino l'impegno di chi ci ha preceduto, lottando per la nostra libertà.
Scacciamo via ogni attacco di panico della malora... e tuffiamoci perchè, dopo tutto, è molto meglio annegare che soffocare.

sabato 2 luglio 2011

Friedrich Hölderlin: In lieblicher Bläue

In lieblicher Bläue blühet mit dem metallenen Dache der Kirchturm. Den umschwebet Geschrei von Schwalben, den umgibt rührendste Bläue. Die Sonne gehet hoch darüber und färbet das Blech, im Winde aber oben stille krähet die Fahne. Wenn einer unter den Glocken dann herabgehet jene Treppen, ein stilles Leben ist es, weil wenn abgesondert so sehr die Gestalt ist, die Bildsamkeit herauskommt dann des Menschen. Die Fenster, daraus die Glokken tönen, sind wie Tore an Schönheit. Nämlich weil noch der Natur nah sind die Tore, haben diese ähnlichkeit von Bäumen des Waldes, Reinheit aber ist auch Schönheit.Innen aus Verschiedenem entsteht ein ernster Geist. So sehr einfältig aber die Bilder, so sehr heilig sind sie, daß man wirklich oft fürchtet, die zu beschreiben. Die Himmlischen aber, die immer gut sind, alles zumal, wie Reiche, haben diese Tugend und Freude. Der Mensch darf das nachahmen. Darf, wenn lauter Mühe ein Leben, ein Mensch aufschauen, und sagen : So will ich auch sein ? Ja. Solange die Freundlichkeit noch am Herzen, die Reine, dauert, misset nicht unglücklich der Mensch sich mit der Gottheit. Ist unbekannt Gott ? Ist er offenbar wie der Himmel ? Dieses glaub'ich eher. Der Menschen Maß ist's. Voll Verdienst, doch dichterisch wohnet der Mensch auf dieser Erde. Doch reicher ist nicht der Schatten der Nacht mit den Sternen, wenn ich so sagen könnte, als der Mensch, der heißet ein Bild der Gottheit.Gibt es auf Erden ein Maß ? Es gibt keines. Nämlich es hemmt den Donnergang nie die Welten des Schöpfers. Auch eine Blume ist schön, weil sie blühet unter der Sonne. Es findet das Aug' oft im Leben Wesen, die viel schöner noch zu nennen waren als die Blumen. Oh ! Ich weiß das wohl. Denn zu bluten an Gestalt und Herz und ganz nicht mehr zu sein, gefällt das Gott ? Die Seele aber, wie ich glaube, muß rein bleiben, sonst reicht an das Mächtige mit Fittichen der Adler mit lobendem Gesange und die Stimme so vieler Vögel. Es ist die Wesenheit, die Gestalt ist's. Du schönes Bächlein, du scheinst so rührend, indem du rollest so klar, wie das Auge der Gottheit durch die Milchstraße. Ich kenne dich wohl, aber Tränen quellen mir aus den Augen. Ein heitres Leben seh'ich in den Gestalten mich umblühen der Schöpfung, weil ich es nicht unbillig vergleiche den einsamen Tauben auf dem Kirchhof. Das Lachen aber scheint mich zu grämen der Menschen nämlich ich hab' ein Herz. Möcht ich ein Komet sein ? Ich glaube. Denn sie haben die Schnelligkeit der Vögel ; sie blühen an Feuer und sind wie Kinder an Reinheit, Größeres zu wünschen kann nicht des Menschen Natur sich vermessen. Der Tugend Heiterkeit verdient auch gelobt zu werden vom ernsten Geiste, der zwischen den drei Säulen wehet des Gartens. Eine schöne Jungfrau muß dasHaupt umkränzen mit Myrtenblumen, weil sie einfach ist ihrem Wesen nach und ihrem Gefühl. Myrten aber gibt es in Griechenland.Wenn einer in den Spiegel siehet, ein Mann, und siehet darin sein Bild wie abgemalt, es gleicht dem Manne. Augen hat des Menschen Bild, hingegen Licht der Mond. Der König Oedipus hat ein Auge zu viel vielleicht. Diese Leiden dieses Mannes, sie scheinen unbeschreiblich, unaussprechlich, unausdrücklich. Wenn das Schauspiel ein solches darstellt, kommt's daher. Wie aber ist mir, gedenk'ich deiner jetzt ?Wie Bäche reißt das Ende von Etwas mich dahin, welches sich wie Asien ausdehnt. Natürlich dieses Leiden, das hat Oedipus. Natürlich ist's darum. Hat auch Herkules gelitten ? Wohl die Dioskuren in Ihrer Freundschaft haben die nicht Leiden auch getragen ? Nämlich mit Gott wie Herkules zu streiten, das ist Leiden. Und die Un-sterblichkeit im Neide dieses Lebens, diese zu teilen, ist ein Leiden auch. Doch das ist auch ein Leiden, wenn mit Sommerflecken ist bedeckt ein Mensch, mit manchen Flecken ganz überdeckt zu sein ! Das tut die schöne Sonne. Nämlich die ziehet alles auf. Die Jünglinge führt die Bahn sie mit Reizen ihrer Strahlen wie mit Rosen. Die Leiden scheinen so, die Oedipus getragen, als wie ein armer Mann klagt, daß ihm etwas fehle. Sohn Laios, armer Fremdling in Griechenland ! Leben ist Tod. Und Tod ist auch ein Leben.



In amabile azzurro fiorisce con il tetto metallico il campanile. Lo attornia garrire di rondini in volo, lo avvolge l’azzurro più toccante. Il sole lo sovrasta e colora le lamine, ma lassù nel vento quieta stride la bandiera. E se qualcuno poi scende quelle scale sotto la campana, è una vita nella quiete, perché quando la figura è così isolata, allora dell’uomo emerge la plasmabilità. Le finestre da cui risuonano le campane sono come porte sulla soglia della bellezza.
Infatti, poiché le porte ancora sono secondo natura, somigliano agli alberi del bosco. Ma purezza è anche bellezza. Uno spirito grave sorge nell’intimo da ciò che è diverso. Ma pur così semplici, sacre sono le immagini, che sovente di descriverle si teme. I Celesti però, sempre benigni, hanno tutto in una volta, come chi è ricco, hanno virtù e gioia. È lecito che l’uomo li imiti. È lecito, se la vita è pura fatica, che un uomo si affacci a guardare e dica: così voglio essere anch’io? Si. Finché la gentilezza , pura, si conserva nel suo cuore, l’uomo non si misura infelicemente con la divinità. È sconosciuto Dio? È manifesto come il cielo? Questo credo, piuttosto. Dell’uomo è la misura. Colmo di meriti, ma poeticamente, l’uomo dimora su questa terra. Ma l’ombra della notte con le stelle non è più pura, se così posso dire, dell’uomo, che immagine della divinità è chiamato.
C’è sulla terra una misura? Non ve n’è alcuna. Mai infatti i mondi del creatore fermano la marcia del tuono. Anche un fiore è bello, perché fiorisce sotto il sole. Sovente l’occhio trova nella vita creature che occorrerebbe chiamare molto più belle dei fiori. Oh! Io lo so bene! Giacché sanguinare nella persona e nel cuore, e più non essere, piace a Dio? Ma l’anima, come credo, deve restare pura, altrimenti giunge al Potente librandosi sulle ali l’aquila con canto di lode e con la voce di molti uccelli. È l’essenza, la forma. Bel ruscello, tu sembri commovente, mentre scorri chiaro, come l’occhio della divinità attraverso la Via lattea. Io ti conosco, ma dall’occhio sgorgano lacrime. Una vita serena vedo fiorire nelle figure della creazione che mi circondano, perché non a torto la paragono alle colombe solitarie nel cimitero. Ma il riso degli uomini sembra affliggermi, io ho infatti un cuore. vorrei essere una cometa? Così ritengo. Giacché hanno la rapidità degli uccelli; fioriscono al fuoco e sono come fanciulli nella purezza. Desiderare qualcosa di più grande la natura umana non può arrogarsi. La serenità della virtù merita anche di essere lodata dallo spirito grave, che alita tra le tre colonne del giardino. Una vergine bella deve cingersi il capo con fiori di mirto, perché è semplice la sua natura, e semplice nel sentimento. Ma vi sono mirti in Grecia.
Se uno guarda nello specchio, un uomo, e vede la sua immagine, come dipinta; somiglia all’uomo. Occhi ha l’immagine dell’uomo, mentre luce ha la luna. Il re Edipo ha forse un occhio di troppo. I dolori di quest’uomo sembrano indescrivibili, impronunciabili, inesprimibili. È per questo che il dramma li rappresenta. Ma perché ora a te penso? Come ruscelli mi trascina la fine di qualcosa che si estende come l’Asia. Questo dolore, naturalmente, lo prova Edipo. È per questo, naturalmente. Anche Eracle ha sofferto? Certo. E nella loro amicizia non hanno patito i Dioscuri il dolore? Lottare come Eracle con Dio, questo è dolore. E l’immortalità nell’invidia di questa vita, doverla dividere, è pure dolore. Ma anche questo è dolore, quando l’uomo è coperto da macchie di sole, esserne interamente ricoperto! Fa questo il bel sole: tutto infatti esso educa. Con la seduzione dei suoi raggi, come con rose, l’orbita attrae i giovani. I dolori patiti da Edipo sembrano quelli di un pover’uomo che si lamenta di ciò che gli manca. Figli di Laio, povero straniero in Grecia! La vita è morte,e anche morte è una vita.

martedì 28 giugno 2011

Non ho più parole per dire come mi sento. Le ho vendute al tempo balordo, alle utopie politiche agonizzanti e ai mercanti nauseanti che ho incontrato per via.
Setacciai l'ombra della luce per ridare simbolo magnetico al mio sperare.
E trovai solo lacrime, lo so, ma ero pura, autentica, in contatto con la bellezza.
Ora che quel contatto si è dissolto, la cura dell'anima non potrà essere filosofica.
A meno che la sophia di cui mi metta a fare ricerca non sia profondamente tragica e femminile.
Accettatemi per come sono, se credete. Ci ho messo anni per riconoscere le mie peculiarità. Non le posso più rigettare.
E se non sto bene in questo tempo, il problema è solo mio.
Un tempo avrei augurato con pietà sincera alle vittime dei miei strazi di essere benedette sempre dalla potenza dell'Arte e protette dalla fiducia nell'amore.
Confidare in queste parole di Tadeusz Kantor sarebbe un'operazione quotidiana da ripetere più volte al giorno:
"Rendere al pubblico ciò che nella vita dell'individuo c'è di più segreto, che contiene in sè un valore supremo che al mondo può apparire ridicolo, piccolo, una miseria. L'arte trae quella miseria alla luce del giorno.
Che cresca e che governi.
é questo il ruolo dell'arte.".


Ma io rimango altrove. Niente più cresce e l'anarchia è senza più freni perchè ho tradito anche l'arte, però, se credete, leggete poesie, ascoltate musica, cantate e guardate curiosi il cielo..in fondo, tutto passa finchè si sa scrutare la bellezza ed avere qualcuno vicino che cerca, diversamente, varchi simili.
Ogni tentativo di recidere le mediazioni tra io e mondo è insano , perchè ci si crede sovrani persino dei sentimenti.
Nulla invece appartiene all'uomo, nemmeno il tempo.
Se pensate di avere trovato la verità, l'avete già perduta.
Io pago la mia hubris senza sconti, come se non avessi mai letto un romanzo, visto nessun film o assistito ad una tragedia greca. Men che mai come se mi fossi laureata in filosofia e studiassi Gadamer da anni.
Ho sempre creduto nella resistenza, perchè il dolore non risparmia nessuno.
Ma stavolta tutto mi fa credere che mi stia dissolvendo.
Dove si nasconde l'errore?
Non lo so. Ma anche se lo si trovasse con certezza, resta sempre tanto amaro in bocca. Perchè la vita perduta nel frattempo non te la restituirà mai nessuno. Visto che non appartiene a nessuno, nemmeno a te che in questo momento sei sicuro di possederla ed orientarla dove tutto ciò che senti, credi e speri ti spinge a pensare sia il tuo bene.
La beffa è dietro l'angolo. E davanti, dietro, sopra e sotto tutto ciò che ti circonda.
Non resta che ascoltare e lasciare essere, forzandosi di distruggere la prigionia del proprio io, l'inconscio, il subconscio ed anche, e soprattutto, il Super Ego, pronti a ricominciare la stessa eterna lotta con un pizzico d'amore in più.
Ma a volte la macchina si inceppa, il disco s'incanta, le collezioni di bei momenti vengono del tutto dimenticate e persino l'elenco delle nevrosi si dilegua, quando il movimento si ferma ed il silenzio dell'incomprensione resta la sola dimora in cui mendicare briciole di pietà ed invocare la tregua.
Vorrei tanto essere una pianta. O magari un sasso. Ma non vorrei essere usato nè per fare il fuoco, nè essere auscultata per cercare la magia, men che mai per lapidare qualcuno. Lì, ferma, mentre il mondo diviene. L'eternità senza supremazia. Ecco cosa resta di tutti i miei ideali. Solo noia.

domenica 29 maggio 2011

Del vantaggio di non essere Dei

Si può lasciare andare qualcosa solo dopo che lo si è trattenuto. E siccome dovremo lasciare andare tutto, bisogna imparare nel tempo a contenere la stretta. Non ci facciamo più gelidi perché vogliamo essere gelidi, ma perché l’intensità dell’afferrare che esplode nella vitalità, è costretta ad affievolirsi nell’impoverimento progressivo che spetta a chi voglia farsi sempre più leggero e congiungersi con l’etere infinito nel quale siamo destinati a fluttuare come tracce, ricordi o anime quando i corpi cesseranno di compiere le loro funzioni vitali.

Dopo lotte sanguinanti, conflitti mai risolti, non c'è vita umana che non si trasfiguri nella dimensione mediana che le appartiene, ritrovando in essa la sua origine.
Nè Dei nè bestie.

A metà, in cerca di lievi contatti o di silenzi, nell'assenza di senso e gravità, lo spirito si modella senza modelli, perdendosi nell'infinito del respiro dell'Universo, calmo perchè il caos è senza alcun ordine di Re.

sabato 28 maggio 2011

In viaggio verso il tempo

Oltre l’Occidente. Né verso Oriente, né verso i poli. Oltre la grammatica, al di là della parola, del suono, delle tracce e contro ogni gerarchia. Silenziosa, sensuale e forte libertà, che non cerca assensi, consensi e commenti. E si ribella ad ogni giudizio e tentativo di cambiare le sorti altrui, confondendo l’esistere con una missione nevrastenica senza colori. Fuori dalla dicotomia “principio di piacere”- “principio di realtà”. Altrove, ovunque, per le vie del mondo e tra i sogni d’aria, acqua, terra e fuoco che insegnino di nuovo cosa sia la vita e quanto struggente e meraviglioso sia esserci, finché morte non mi separi da questo corpo benedetto e da tutte le esperienze incisive che esseri animati, inanimati, bestiali, divini, umani e troppo umani, vuoti, pieni, noiosi ed eccellenti mi hanno spinto a vivere, duellando con la mia storicità e modellandola volta per volta. Oltre Dio, anche se sempre in sua rammemorante e preveggente, ma intimissima- e perciò muta- ricerca. Ricerca di un nuovo amore allegro e rovinoso, folle e salutare come una fontana musicale che ogni tanto va in tilt, zampillando sangue e frammenti di pentagrammi...ma più in là, più in là.
Si cerca il tempo cercando lo spazio.
E ho bisogno del mondo, di impressioni e pochissime espressioni.
http://www.youtube.com/watch?v=m-y3GZrCjx0&feature=share

domenica 22 maggio 2011

Valèry e la libertà

DALLA PAROLA, AL CONCETTO, ALL’AZIONE..E POI, DI NUOVO, ALLA PAROLA.
Scrive Valèry:
LIBERTà: una di quelle parole detestabili che hanno più valore che significato; che invece di parlare, cantano; invece di rispondere, domandano; di quelle parole che hanno fatto tutti i mestieri, e la cui memoria è imbrattata di Teologia, di Metafisica, di Morale e di Politica; parole perfette per la controversia, la dialettica, l’eloquenza; appropriate sia alle analisi illusorie e alle sottigliezze infinite sia ai propositi di frasi foriere di tempesta.
Per questo nome, “Libertà”, trovo un significato preciso solo nella dinamica e nella teoria dei meccanismi, dove designa l’eccedenza del numero che definisce un sistema materiale sul numero degli ostacoli che si oppongono alle deformazioni di tale sistema, o gli impediscono certi movimenti.
Questa definizione, che deriva da una riflessione su un’osservazione elementare, meriterebbe di essere richiamata a fronte della significativa impotenza del pensiero morale a circoscrivere in una formula ciò che esso intenda con “libertà” di un essere vivente e dotato di coscienza di sé e delle proprie azioni. Ma, quando non vi è alcun riferimento comune che lo obblighi a mettersi d’accordo, nulla è più fecondo di ciò che consente alle intelligenze di dividersi e di sfruttare le loro divergenze.
Avendo dunque le une vagheggiato che l’uomo fosse libero, senza poter dire al riguardo cosa intendessero con queste parole, le altre, prontamente, immaginarono e sostennero che non lo era. Parlarono di fatalità, di necessità, e, molto più tardi, di determinismo; ma tutti questi termini appartengono esattamente allo stesso livello di precisione di quello cui si oppongono. Non arrecano alla questione alcun contributo che la sottragga a quell’indeterminatezza entro la quale tutto è vero.
Il “determinista” ci giura che, se si sapesse tutto, si sarebbe capaci anche di dedurre e predire il comportamento di ciascuno in ogni circostanza, il che è piuttosto ovvio. Il guaio è che “sapere tutto” non ha alcun senso.
Appena si stringe sui termini, in questo argomento come in tanti altri, tutto diventa assurdo: erano gonfi solo di imprecisione. Si constata facilmente che il problema non ha mai potuto essere veramente enunciato, che tale circostanza non ha mai impedito a nessuno di risolverlo, e che essa gli conferisce una sorta di eternità: esaspera la mente costringendola in un circolo chiuso. Il celebre matematico Abel, parlando di una cosa totalmente diversa, diceva: “Bisogna dare al problema una forma tale per cui sia sempre possibile risolverlo”.
È questa forma che bisognava cercare. Chè se è introvabile, il problema non esiste.
Se questa prima ricerca viene a mancare, il pensiero che si accalora su una parola si smarrisce in una quantità di espressioni particolari: a volte adotta un significato più o meno composito, una sorta di media tra quelli vigenti; altre volte un significato assolutamente convenzionale, che ben presto si confonde con quello in uso- ed ecco introdursi l’infinito degli equivoci e delle fluttuazioni del pensatore stesso.
È un errore molto facile, e tanto comune da potersi dire costante, fare di un problema di statistica e di notazioni radunate in modo casuale una questione di esistenza e di sostanza. Non vi è, non vi può essere nulla di più nel significato di una parola se non ciò che ogni intelligenza ha ricevuto dalle altre, in mille occasioni diverse e disparate, cui si aggiungono gli usi che essa stessa ne ha fatto, tutti i brancolamenti di un pensiero nascente in cerca della sua espressione. È dunque alla sola filologia, loro giudice naturale, che conviene sottoporre tutte le questioni i cui termini possono sempre essere messi in discussione. Soltanto ad essa spetta restituire le origini e le peripezie del significato e dell’uso delle parole, ed essa non presuppone loro un “significato autentico”, una profondità, un valore diverso da quello di posizione e di circostanza, che risiederebbe e sussisterebbe nel termine isolato.

lunedì 10 gennaio 2011

Antiche benedizioni solitarie

21 dicembre 2009. Conversione all'amore per l'anno che verrà.

CENERE

Infettata dalle vostre paure
Ammorbata dalle mie
Le emozioni più pure sono state
Ridotte spesso a moniti ostili
Nei confronti di quel che
Fin troppo giovane conobbi
E custodii ruvidamente
Dalla scia greve
della convivenza umana.

Oggi non esistono più scuse.
Affondo lieve nella porpora
Del mio intenso cuore
Lo proteggo di nuovo
Da qualunque insano oblio
Che la mente sciocca
Sfibrata suggerisce
Come rimedio al male.




Mi spiace, ora lo so
Lo so bene
Ci si brucia
Ma si brillerà poi ancora
Senza che cenere rimanga a lungo
Sul mio palpitare ingiusto
Verso volti lontani e stanchi
Inibiti dalla mia indecifrabilità
Avvolti dalla loro ambiguità
Seppelliti da domande errate,
forse solo da troppe risposte idiote.

Non lo so
Fallirò ancora, fallire è certo
Ma corpo e spirito sono smarriti
Se sbarrata resta la via Maestra
Che ha segnato il mio cammino,
Ed era vera, dolce e faticosa,
Sicuramente la più importante,
Che rinnegare è stato stupido
E foriero di morte.

Attendo che la cenere
Annunci il mistero
In luoghi e tempi
Che torneranno a bruciare
Come segni dell'unico incanto
Degno d'esser vissuto.