martedì 4 ottobre 2011

Nota su fb di un anno fa

Dedicata a Marco, Patrick e Norman, che per un secondo pazzo non seppero più cercar bellezza

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Perchè? Su, perchè? Non è meglio tacere? Certo che lo è, ma devo condensare da qualche parte la furia di pensieri ed amarezza di queste ore.

Rinunciare al riconoscimento è possibile per un uomo?

Dopo parecchio errare, forse riuscirà a fare a meno dell’opinione altrui. Della propria opera no, o, meglio, con molta più difficoltà.

Sono stati i Greci ad insegnarci quanto sia essenziale la fama. Lasciarsi riconoscere per alcune virtù ben codificate era alla base del vivere in comunità. Chi meritava il riconoscimento fino a Socrate erano sovrani, guerrieri, in seguito atleti. La rivoluzione socratica rovesciò i termini entro cui misurare la validità di un uomo, operazione ritenuta da Nietzsche criminale, instauratrice di quell’etica degli schiavi di cui il cristianesimo non sarebbe che un degno figlio. Vitalismo versus cura dell’anima. Ecco i grandi temi gettati fin dall’inizio tra i copioni susseguitisi nel grande palco della vita occidentale per millenni.

"Non cantata, l’azione più nobile morirà". Pindaro, frammento. “Non omnis moriar”, Orazio, Odi, III, 30 6. E così questo bisogno di non morire, aggrappandosi alla speranza che le tracce, almeno quelle, siano eternamente mediate perché ben curate e lasciate generosamente all’eternità, ha condizionato tutte le altre epoche, che si sono volta per volta trasmesse qualcosa attraverso il segno scritto. Conservando e (ri) creando. Per alcuni è sintomo di un'ingorda volontà di potenza, ma credo che si confidi nella propria opera, perchè si ha consapevolezza di essere estremamente fragili e l'unica cosa che si possa modellare sfidando il tempo è un dono da lasciare agli altri, che potranno, se vorranno, riconoscere parti dello spirito dell'autore. Tuttavia, anche l'assenza di tracce ordinate, l'opera incompiuta ed interminabile può e deve essere considerata, oggi più che mai, l'eredità di chi non c'è più.



Si cade. Prematuramente o meno, si cade. Per poi rialzarsi o per restare giù, si cade.

Caduti in battaglia. Caduti sul lavoro. Fallen in love. Ed in generale, sempre in piedi non si può stare. E quando si cade e si vorrebbe restare rannicchiati in posizione fetale ad osservare la vita che scivola sulle nostre paure, perché dovremmo rimetterci dritti e continuare ad andare? Non è stando a terra che possiamo opporci al passaggio? Farlo passare e sconfiggere il suo scorrere, non duellare più in questa lotta per l'esistenza, che scova i suoi vincitori quasi sempre tra coloro che meglio sanno adattarsi alle regole del proprio tempo.

In piedi, ci si confonde con coloro che si rialzano senza avere imparato nulla dalla caduta, assetati di vittoria, innamorati della rapidità della camminata ritmica, alla cui frequenza non nasciamo tutti egualmente predisposti.

Chi si alza, non si piega. Procede. Rapidi momenti di imbarazzo e cordoglio per gli altri rimasti a terra, ma nessuna bandiera che interrompa la corsa, come per quel giapponese di diciannove anni che correva troppo, giocava con la morte, ma non meritava di andarsene nell’indifferenza di tutti.

Poi, come fu per Marco sette anni fa e per Patrick qualche mese fa, qualcuno pare prendere coscienza dell’indecente danza voraginosa del nostro tempo vuoto, che miete ovunque infelicità... ma dura pochissimo e poi tutto torna come prima. Ed un due e tre, ed un due e tre… come un’insostenibile aerobica insegnata da un maestro con pile duracell in qualche palestra dall’aria appiccicosa… inspira, espira, gamba destra in su, guardati allo specchio, segui me, sorridi, ancora uno sforzo, su, su, vai, bravo, bravo..continua, bene, bene, beneee

Che bei sorrisi smaglianti a sostenerci. Che belle formule inneggianti alla vita, al suo valore, alla sua meraviglia! Nessuno pare accorgersi della nevrosi vitalista in cui si consuma il nostro tempo, di quanto tremendo timore di morte lo divora. Oppure è tutto un modo per esorcizzare, già. Ed uno dei contenitori di esorcizzazioni più lampanti è il social network, come testimonia l'esistenza di questa nota.

Ogni icona pronta a dire la sua, a vomitare la sua opinione intorno ad ogni caso di caduta, reso un momentaneo possesso del vociare dei più, violando il suo non voler essere un fenomeno, magari. Nemmeno un esempio da prendere in considerazione. Solo una caduta. Ebbene, cosa state lì a piagnucolare? Non fatelo se quello che vi interessa è solo produrre e viver sani e belli, non vi fermate. Ed un due e tre, ed un due e tre…

Se invece sentiamo che appartiene anche a noi quel dolore, quel terrore di non avere futuro per le colpe dei padri ricadute sui figli che hanno dipinto un'Italia di vecchie figure, spesso squallide…se inquadriamo la morte di Norman nella logica di un Paese paralizzato dalle raccomandazioni e che non tiene conto dei meriti, non li incoraggia a risplendere..beh, contempliamola con rispetto lo stesso, senza gridare, senza esprimerci in termini di condanna socio-politica, pronti a cercare ovunque colpevoli da scannare, generalizzando a più non posso, per favore... Non è che un modo banalissimo, incapace di rendere davvero conto di cosa significhi una perdita. Finirebbe con mettere addosso a Norman un'etichetta, quella dell'eroe senza futuro dei nostri tempi e dimenticarcene rapidamente, senza lasciare che rimanga necessario provare tormento per il suo gesto, che non va spiegato a tutti i costi, ma dovrebbe restare ferita profonda, segno di un fallimento collettivo, disarmante, che impone una domanda aperta sul senso/non-senso della sua morte.

In realtà, stiamo cadendo tutti. Solo che in troppi preferiscono ritenerlo inessenziale.

Ci nutriamo delle morti altrui per creare un’immagine della nostra e rigettarla in fretta. Andiamo ai funerali ricordandoci all’improvviso di tutto quello che non abbiamo ancora detto e fatto e raccomandandoci di cambiare profondamente alcuni atteggiamenti e mentalità che ci hanno reso distanti persone care. Fugaci bilanci, disattesi non appena rientreremo nell’eterna distrazione, connotazione ontologica del nostro tempo.

Distratti dalla morte. Una vita che non si rende conto che è tale perché stagliata su un fondo nero al quale torneremo necessariamente è un’illusione patinata che corrode il centro nevralgico dell’esistenza umana. Il suo rapporto con il tempo.

Mutilato della possibilità di piroettare indietro verso le origini e di profilarsi destini imperscrutabili con progetti a lunga scadenza, l’immaginazione e persino folli amori da cantare un domani, il perpetuo presente di oggi rischia di diventare il letamaio che accoglie tutte le nostre insulse esistenze. Un presente che raramente è vivente.

C’è chi decide di sfidare la morte, inseguendo una goccia di splendore. Una scommessa d’eternità, come sono la poesia, la musica, la danza, il teatro, il cinema o persino grandi imprese. O la filosofia, dono eccelso, eredità suprema, che per me continua ad essere, malgrado tutto, l' apice di ogni ricerca razionale dell'Occidente.

E c’è chi si imbeve di nichilismo per addomesticare ogni tormento e livellare ogni azione, dire e sentimento, non avendo più alcun’ansia di mostrarsi e dimostrare alcunché.

Mi accorgo che comunque da ogni modo di essere adottato lasciamo che scaturisca un’infondata rabbia verso qualcosa di esteriore, le strade imboccate dagli altri, senza mettere fino in fondo in luce i nostri stessi limiti.

Anch’io, adesso, con chi ce l’ho precisamente? Quale vita impersonale sto descrivendo? Quale meschinità sto cercando di criticare? Probabilmente unicamente la mia. Perché la verità è che non ce l’ho più con nessuno. A furia di lottare, pensare contro, osservare da vicino il nemico che cambiava continuamente sembianze dentro e fuori da me ed ipotizzare resistenze varie, ho perduto fiducia nella possibilità di distinguere fermamente il bene dal male, preferendo “economizzare”la violenza con un'eccessiva diplomazia ed un'ingenua generosità verso persone che non hanno bisogno davvero di me, non ora..sto recitando solamente il rifiuto del riconoscimento in ambiti dove ho avuto l'onore e l'onere di introdurmi grazie al mio lavoro, che ormai dimostro, in fondo, di disprezzare non impostando tutta la vita sulla ricerca, come fanno soltanto coloro che credono in questa fatica intellettuale... come facevo anch'io. Sono caduta da un pezzo, nessuno se n'è accorto. Hanno cercato di farmi capire come fosse normale, sono riuscita a consolarmi con la logica del "così fan tutti". Ma adesso è giunto il momento di alzarsi e ricominciare a camminare a passi lenti, come spetta a me.

Il cuore è spezzato perchè non può tollerare che a ventisette anni si muoia così. Sento e presagisco la solitudine di Norman, ma non me ne approprio, non la utilizzo. Lascio che mi trasformi, custodendola per quel che posso riuscire ad intuire essa sia stata.

Non c’è nessuno sbocco effettivo per il filosofare. Nessun traguardo spetta a tutto quel domandarsi inquieto, cercare tracce,tradurle senza tradirle, scovare pubblicazioni non prese in considerazione da nessuno, ideando un gioco di concetti implacabile, che dall’esterno verrà sempre giudicato inessenziale. Non c’è certezza alcuna di vedere premiati quegli sforzi, nessuna logica asino-carota. Ci si nutre di pensieri, intuizioni e questioni che di rado entusiasmano la massa. E si resta isolati ed incompresi, speranzosi che almeno nell’Accademia, tra simili, sia consolidata una fiducia smisurata per i nostri sforzi. Ma il dialogo tra colleghi è sempre più difficile, così come quello tra studenti e docenti, eccezioni magnifiche a parte che ho avuto la fortuna di sperimentare e cui manifesterò sempre profonda gratitudine.

In questo momento tutti nella famiglia, tra gli amici di Norman ed in facoltà si staranno interrogando sulle proprie responsabilità.

Io Norman non lo conoscevo. Il suo viso me lo ricordo benissimo, l’ho incontrato tante volte, ma è già significativo della distanza che si può instaurare tra colleghi il fatto che non avessi alcun rapporto con lui. Colpa mia, sempre troppo lontana dall’Accademia, malgrado il ruolo ricoperto che mi costringerebbe a vivere prevalentemente lì, lo so. A che serve studiare a casa, se esistono le biblioteche?

Ora so con chi ce l’ho. Ce l’ho fondamentalmente con me, che questo posto probabilmente non lo merito come lo meriterebbero altri, come l’avrebbe meritato lui. Ormai Norman era quasi arrivato al capolinea del suo dottorato. Bastava poco per avere un titolo. Ma gli sarà sembrato atroce riuscire ad arrivarci, ed in fondo inutile, e questa sensazione io ce l’ho già un anno prima.

Se non si trasforma in passione totale per la ricerca, la consapevolezza di questa caduta è solo una lacrimosa, insensata azione melodrammatica del mio cervello stupido. Se non diventa un modo per affermare in modo più forte il diritto allo studio e la necessità di confrontarsi di continuo con colleghi e docenti, scoprendo le proprie manchevolezze senza sentirsi delle nullità, sarà come se Norman non fosse mai morto. Come se non avessimo capito perché ciò è accaduto. Ed un due e tre, ed un due e tre…

Perché è accaduto? Una risposta univoca non sarà mai possibile. Di sicuro ci si lancia nel vuoto perché il calore non lo si avverte davvero più, forse è recepita come finzione anche la disponibilità da parte di alcuni a misurarsi con le problematiche interiori, e la liberazione dall’angoscia si sente che non possa passare altro che da un atto estremo, non dall’amore disinteressato, capace di lasciarla esplodere in rivoli di dialoghi continui con persone che sanno ascoltare, o almeno ci provano...Riuscire a tirare fuori parole dure, che sfibrano, ma che non si può fare a meno di lasciare imbrigliate da qualche parte, aspettandosi una correzione, un cenno di soddisfazione o una punizione. Ecco perché il riconoscimento per un uomo è necessario. Abbiamo bisogno di affidare a qualcun altro il nostro verbo, sbagliato,sempre troppo umano, perpetuamente da limare in uno scambio continuo che solo la morte può giungere ad interrompere.

Chi non parla con nessuno sta sempre male? Forse no. Le fratture sono indispensabili tanto quanto i dialoghi. Ma quell’inesprimibile che ci accompagna rischia di originare sillogismi inesatti, contrari ad ogni legge di natura, se non tentiamo di sfidarlo in un’approssimata vicinanza dialettica. Porgersi fuori da essa, porgersi cioè fuori dalla vita, accade quando gli altri sono diventati, se non addirittura complici del proprio malessere, solamente freddi ostacoli, incapaci di interagire adeguatamente con le proprie visioni. Ma in realtà nessuno è mai riuscito a spiegare perchè dovere stare al discorso, perchè cercare equilibrio ed aver contezza che ciò che indossiamo volta per volta sono soltanto maschere e tragedia, satira, commedia si alternano senza sosta all’interno del nostro stesso più o meno lungo tragitto vitale. Certo, è facile dire che ci vuole ironia e si debba capire come ci sia una distanza impossibile da colmare tra il soggetto che agisce, cerca il suo essere e si sforza di accettare il suo dover essere, restando fiducioso e timoroso del suo poter essere da una parte e la vita stessa, oltre il soggetto, qualcosa la cui radice rimane misteriosa, ripugnante o divina che sia, in ogni caso non a disposizione di nessun essere vivente, dall'altra parte. Facilissimo ammonire coloro che si illudono di essere i registi del loro esistere e perdono di vista la tensione verso quel vitale che rimane sempre inafferrabile per tutti. Facile, troppo facile, parlare come Gadamer ed elogiare la misura , ciò che ci consente di individuare il punto limite entro il quale non è possibile andare, perché l'essere umano non smette di muoversi intorno ad una dialettica infinita tra creazione ed autoconservazione, che restano entrambe peculiarità originarie del suo essere, che misto nasce e misto (di bellezza e di orrore) morirà.





Quando Marco morì, rimasi per mesi a scrivere su di lui, senza poterlo dire mai a nessuno. Non era mia quella morte, perchè non era stata "mia" quella vita, ma semmai di alcuni tra i miei migliori amici che con Marco condividevano giornate e notti intere. Io ho avuto l’onore di uscire con lui e gli altri ogni tanto, parlargli talvolta all’università, dove capitava fumassimo qualche sigaretta insieme, niente di più. Ma non me lo sono dimenticato, perché il suo sguardo è impossibile da dimenticare. Da allora sono andata sempre di meno in facoltà. Ed ancora oggi, mentre al teatro Gregotti giù si dibatte su Benjamin e su S.Tommaso, in silenzio sento il potere fortissimo delle sue immagini alle spalle, su quel muro dove le hanno raccolte, senza targhette né illustrazioni di alcun tipo che pretendano di dire chi fosse Marco.

Tracce, lasciate lì, perché qualcuno si ricordi di lui, mentre intanto gli studiosi, i suoi colleghi ed i suoi professori, continuano ad ingrossare la “ricerca”.

Non ho la forza di tornare al settimo piano, dove qualche tempo fa trasformavo in chiave estetica la rabbia ed il terrore, pensando intensamente a quel momento, come se fosse stata anche colpa mia. Perché quel senso di corresponsabilità non è mai svanito e non è semplice addomesticarlo.

Non si può spiegare il dolore, mai. Inutile interrogarsi sulle ragioni, immergersi in continue domande sul senso del riconoscimento, la libertà e la decadenza dei tempi. L’essere e il dover essere. L’apparire che uccide l’essere. Basta. No, ormai non piango più. Perchè lo sto facendo. Non ha senso. Lascio che la disperazione mi faccia sanguinare interiormente, ma non voglio esibirla, perché io sono fortunata e non ho diritto di partecipare a riti solenni di cordoglio per la morte di questo mio collega.

"Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione. Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto: "Non c'è altro da vedere", sapeva che non era vero. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si è visto in estate, vedere di giorno quel che si è visto di notte, con il sole dove la prima volta pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha cambiato posto, l'ombra che non c'era. Bisogna ritornare sui passi già dati, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre. Il viaggiatore ritorna subito. "(José Saramago)

Io, che ho tanto cui aggrapparmi, continuo questa replica continua, tornando ogni volta indietro, a rivedere qualcosa, a sperare ci sia altro da vedere, ma senza correre, senza nevrosi insensate di dovere stare al passo orgogliosissima del portamento e delle mie visioni. Perché chi è caduto o non può camminare abita in me. Ed è quel dolore ad impedirmi di trovare allettante la corsa verso l’abisso. Perché non vince chi arriva prima. Forse non vince nessuno. E l’esigenza di essere competitivi è la più ingenerosa invenzione contraria all’umanità che il nostro tempo utilizza a iosa per creare gerarchie idiote ed ingiuste, che lasciano ai margini troppe persone di valore, che personalmente non ho alcuna intenzione di oscurare con una folle, smisuratacorsa, dimentica di ogni caduta.



Ma perché pria del tempo a sé il mortale invidierà l'illusïon che spento pur lo sofferma al limitar di Dite? Non vive ei forse anche sotterra, quando gli sarà muta l'armonia del giorno, se può destarla con soavi cure nella mente de' suoi? Celeste è questa corrispondenza d'amorosi sensi, celeste dote è negli umani; e spesso per lei si vive con l'amico estinto e l'estinto con noi, se pia la terra che lo raccolse infante e lo nutriva, nel suo grembo materno ultimo asilo porgendo, sacre le reliquie renda dall'insultar de' nembi e dal profano piede del vulgo, e serbi un sasso il nome, e di fiori odorata arbore amica le ceneri di molli ombre consoli. Sol chi non lascia eredità d'affetti poca gioia ha dell'urna; e se pur mira dopo l'esequie, errar vede il suo spirto fra 'l compianto de' templi acherontei, o ricovrarsi sotto le grandi ale del perdono d'lddio: ma la sua polve lascia alle ortiche di deserta gleba ove né donna innamorata preghi, né passeggier solingo oda il sospiro che dal tumulo a noi manda Natura.



(U.Foscolo, Dei Sepolcri).



Come donare alle anime cadute un frammento d'eternità? Non ci sono risposte, ma sfido ancora un pò il silenzio decoroso che mi spetterebbe, esortando principalmente me stessa a considerare che se pietà, riconoscimento e gratitudine sono mancate a tanti amici ed amiche fragili mentre erano in vita, non possiamo far altro che onorarli con misericordia infinita adesso, prendendo in consegna il loro tormento, senza troppa retorica.

Lasciare che vivano attraverso di noi, in un dialogo interiore che prosegue ininterrotto è la sola maniera per non perderli per sempre. E sforzarsi di partecipare ad un dialogo con i vivi che salvano ed aspettano di essere salvati tanto quanto noi, resta l'unico tentativo per tentare di non ritrovarci di nuovo analfabeti in queste situazioni crudeli.

Sarò pure poco "teoreta" e molto bambina frignona, ma qualcuno sa dirmi quale traccia ed eredità conta più lasciare, se non quella degli affetti?

Poesie di un giorno d'estate 2011

Poesia con la A
All’alba, angosce aderenti all’anima
Annunciavano agnizioni adamantine.
Avveneristiche applicazioni
Annerirono ardimentose avversioni
All’Attualità acre.
Anticamente aggredii ansie articolate
Aprendomi all’Assoluto.
Adesso, anniento allegrie
Acquistando annoiati attimi,
annotando assenze amorfe, arbitrarie apprensioni,
aleatorie accelerazioni a-ritmetiche.
Attendo ancora Amore?
Avvinta, ausculto acredini ataviche
Accogliendo animalità arroganti,
augurando agli amici accecati
amene avventure avvilenti.
Altrove, apparirà Aurora,
affidabile amica abbandonata,
agonizzante aura, americanamente assorbita.
Attraversando asperità aporetiche,
adombrando apnee astiose,
alloggerò arresa,
aspettando anche altri arrivi.

Poesia con la E


Eventi esaltanti
Eccitano egemonici energumeni
Esportando eccessi
Evitabili ed essiccanti.
Essenzialmente è estetica.
Evitare elucubrazioni ed eludere.
Evasive esplicazioni
Espandono estasi,
estinte enunciando ed esperendo
evasioni ebbre.

Poesie con la i

Inutile insistere,
Inappropriabile io!
Irrigidirai incessantemente
Incanti inenarrabili,
immaginando, indugiante,
inesistenti infiniti
inseriti in idiomi insonni.
In incerti istanti, invece,
incontreresti intatte intuizioni,
impossibili insieme, inevitabilmente.
Illuminati ignorando, idiota idealista!

Poesia con la O


Osserva: occorre odiare orde, occultare.
Osannate opinioni offerte ogni ora
Offendono onorabilità.
Occasionalmente organizzai ondeggianti orchestre,
ostinandomi ottusamente, oltre ogni opportuno ostacolo.
Ordire oscene orazioni, onerosi orpelli,
ospitando ostili ovulazioni
obliteranti ombre,
Offuscò ozii orgogliosamente onesti,
ottenendo oscuri oblii.
Ormai ordino odiosamente ogni ossuta opportunità
Orientando ovvie occasioni
Ove opacizzarmi obbligatoriamente.
Opzioni:
obbedire ormeggiando,
oppure osare origliare, oltre orchi ora ottenebrati, ora offesi,
opere omnie, odorose orchidee orientali, orme o oggetti oftalmici
onde onorare, omologandomi, odierni orizzonti obesi?

Poesia con la U


Un’unica udienza uccide umbratili unioni,
urtando usanze universalizzate.
Urge un utile ufficio:
uscire,
udendo ugule ubriache urlanti.