martedì 18 settembre 2012

Nè sapere nostalgico, nè retorica dell'apocalisse. Abbiamo bisogno di fisiologi e filologi...

Invito a leggere la prefazione di Antonio Pascale al libro di Alessandro Trocino, Popstar della cultura: "Questo libro è un originale contributo alla democrazia culturale. Precisiamo: per il buon sviluppo democratico il diritto di parola è una condizione necessaria ma non sufficiente. Aprire i microfoni a chiunque è un bene, o comunque un punto di partenza dal quale non possiamo prescindere, ma ciò non garantisce la qualità delle opinioni. Queste ultime sono, infatti, l’enzima che catalizza ogni buona e veloce reazione democratica. Basta partire da uno schema semplice: noi abbiamo delle opinioni, le nostre opinioni vengono lette dai politici di riferimento e poi tradotte in leggi, norme, circolari, insomma tutto quel complesso di regole che dovrebbe servire a rendere la nostra società un posto migliore; di conseguenza solo un ambiente migliore e costantemente bonificato ci migliora. Dunque, a opinioni profonde corrispondono politici profondi, a opinioni superficiali corrispondono politici stupidi. Questo schema, mi rendo conto, è semplice, elementare e non tiene conto di molte variabili, ma ha un vantaggio: l’attenzione si concentra non sui politici o sulle leggi, ma sulle nostre opinioni. Ora, chi sono quelle persone che oggi si dedicano ad approfondire le nostre opinioni e dunque a presiedere e vigilare sul buon andamento della democrazia? Gli intellettuali, naturalmente. In senso lato, tutti quelli che, con responsabilità e usando una metodologia soggetta a controllo e verifica, si dedicano a diffondere e rendere accessibile la conoscenza. Sta di fatto, però, che la modernità, se da un lato accresce il numero degli intellettuali, perché chiunque può prendere la parola, dall’altro tende a creare una categoria- molto rispettabile in sé- di persone che si specializzano in determinate discipline. Sono gli opinion maker: quelli che riescono a raggiungere ogni giorno un vasto pubblico perché hanno accesso a strumenti che amplificano la loro voce: giornali, radio e altri media. Sono quelle persone che, detta in breve, gli autori televisivi e i redattori dei giornali più facilmente invitano affinché ci raccontino la loro visione del mondo. A loro spetta il compito di fornire una misura, perché, si sa, prima delle opinioni, c’è bisogno di una misura. Senza di essa non è possibile analizzare un bene, valutarlo e creare delle differenze. Da queste, infatti, nascono i valori. I valori stabiliscono delle priorità di scelta e i conseguenti programmi d’azione politica. La domanda che l’autore di questo libro si è posto nasce da una democratica preoccupazione: chi sono i nostri opinion maker? E questi intellettuali appartengono ancora alla categoria degli “autorevoli specialisti” oppure, con il tempo e con il crescente successo, hanno cambiato forma, si sono mutati cioè in popstar della cultura? Magari sono affetti da massimalismo, e quindi incapaci di fare valutazioni- privi come sono di un metodo di misura, con poca attenzione alle fonti- , oppure sono dei narcisisti fuori dal mondo e pertanto poco propensi a esaminare la contemporaneità? E se questo è vero, come è potuto accadere, quali passaggi hanno portato i nostri intellettuali a diventare, così, postar della cultura? (…) Sapete perché credo che questo sia un libro bello e serio, e soprattutto un contributo democratico alla stessa democrazia italiana, se mi si permette il bisticcio? Perché leggendo queste vite tutte insieme possiamo ben identificare alcuni dei vizi di questo paese. Sono i nostri stessi vizi, naturalmente, a rendere viziosi i nostri opinion maker. Gli intellettuali, coloro i quali hanno in affido lo strumento della misura per la buona e onesta valutazione, spesso nelle loro analisi usano strumenti poco tarati sulla modernità. Peccano di emotività che, come sappiamo, è una reazione, veloce e spesso compulsiva, a uno stimolo esterno. Sono superficiali, non studiano abbastanza e mancano di passione conoscitiva, che al contrario dell’emozione è più profonda e inquieta. Spesso assumono toni melodrammatici- e intendiamo un melodramma degradato- e tendono a risolvere situazioni complesse con formule semplciistiche. Un primo vizio (…) è quello rubricabile sotto la voce “sapere nostalgico”. Il sapere nostalgico è una versione degradata della nostalgia che, come sappiamo, oltre a essere un diritto inalienabile, esprime uno struggimento: non possiamo tornare là dove (forse) siamo stati felici un tempo. Il sapere nostalgico invece presuppone che tutto quello che è accaduto nel passato abbia un grande valore, mentre tutto ciò che è presente è corrotto. Chi pratica il sapere nostalgico idealizza il passato. Lì, in quella dimensione, sono contenuti tutti i valori; fuori, cioè nell’oggi, c’è la corruzione. I profeti del sapere nostalgico hanno un padre italiano nobile e cioè Pier Paolo Pasolini. Personaggio molto complesso, un visionario e affascinante reazionario. Nel saggio Gennariello Pasolini parla dei napoletani come di un’antica tribù, i Tuareg (identificata anni dopo da Mario Martone nel suo lavoro teatrale Rasoi). Tutto ciò che avviene a Napoli, dice Pasolini, deriva da uno scambio di antico sapere: anche se ti rubano il portafoglio è uno scambio di antico sapere. Quindi dobbiamo sperare, per non farci il sangue amaro e non sentirci oggetto di violenza, di vederci sottrarre il portafoglio a Napoli e non in una qualunque altra città italiana. Vuoi mettere provare il brivido di uno scambio di antico sapere? E’ chiaro che Pasolini idealizzava e romanzava il passato. Questa categoria temporale, tra l’altro di difficile definizione fisica, rappresentava per lui un mondo perfetto, che solo la mano dell’uomo moderno avrebbe distrutto. Perché era perfetto? Perché tutto nasceva da scambi di sapere millenari e per definizione tutto ciò che è antico è anche nobile. La sinistra per prima- e Petrini nasce a sinistra- ha cominciato a un certo punto della sua storia a rimpiangere il passato, anche perché, se esso è frutto di scambi millenari e di Tuareg antichissimi, possiamo mai fidarci di quelli che vengono dall’esterno? Petrini dunque comincia la sua battaglia- ben documentata dall’autore- a favore del tipico e del buon gusto (inteso come cibo) perché, in parole povere, tutto ciò che è tradizionale e locale è anche gustoso, in quanto deriva da millenari scambi d sapere che un territorio ha saputo preservare. Non si capisce perché a un certo punto questi scambi millenari si sarebbero interrotti, chi e cosa abbia provocato la contaminazione e l’imbarbarimento di questa razza tipica, tradizionale, lenta, disciplinata, millenaria, dei Tuareg insomma. Sarà colpa del McDonald’s? O della televisione? Se analizziamo le dichiarazioni di alcune popstar della cultura, spesso considerate (ancora una volta ingiustamente) di sinistra, si arriva facilmente a pensare che, insieme ai suoi intellettuali, anche la sinistra tutta abbia cominciato a rimpiangere gli scambi di antichissimo sapere e quindi alcuni elementi come l’idea del futuro, il gusto dell’innovazione, della contaminazione, insomma la bellezza del divenire, che sono stati associati facilmente a un’altra idea, tanto imprecisa da imporsi come categoria di riferimento: la globalizzazione. E la globalizzazione fa rima con contaminazione. E cosa si contaminerebbe? La purezza dei Tuareg e via via degli elementi a questi collegati. La Lega Nord, con più forza e con una venatura sprezzante e grossolana, ha sostituito la parola globalizzazione con immigrazione. Sono gli immigrati che hanno portato valori estranei alla nostra cultura tipica. Nelle pagine a lui dedicate, la trasversalità di Petrini e il suo legame con quell’area politica sono spiegati molto bene. Purtroppo l’unico scambio, poco simbolico e molto pratico, è stata l’emorragia di voti che da sinistra sono passati al partito di Bossi. Insomma, il potere nostalgico, idealizzando il passato, ci impedisce di valutare con attenzione gli spostamenti dal “modello passato” e dunque di esaminare i costi e i benefici delle inevitabili mutazioni. Da un mondo ideale non ci si sposta, si cade. Quando si cade si entra nell’altro vizio: la retorica dell’apocalisse. Grillo è forse il peggior portatore sano di questo difetto. La parabola di Grillo è ben raccontata. A leggere le sue dichiarazioni sembra di vedere un testimone di Geova in azione. Uno di quelli che bussano di sabato mattina alle vostre porte con la sola intenzione di atterrirvi. E convertirvi. Quelli che, con la loro rivista in mano, “Torre di Guardia” o “Svegliatevi”, vi parlano dell’imminente fine del mondo. Usano una procedura standard. Partono da un modello ideale, generalmente un’immagine che raffigura il creato incontaminato, e di seguito vi mostrano cosa abbiamo combinato al mondo: ciminiere che sbuffano, armi nucleari in agguato, smog, inquinamento, manipolazione genetica. Insomma, i testimoni di Geova sono quelli che affrontano problemi complessi, la cui trattazione richiederebbe competenza e analisi, in maniera semplice ed evocativa . Uniscono cose distanti tra loro senza spiegare il nesso che dovrebbe unirle. E funziona. Il metodo qualche volta ti seduce e può capitare che per un attimo ti senti impaurito e in balia del male. Tutto fa rima con tutto. Siamo quindi sull’orlo del baratro. Poi ti riprendi e magari fai appello alla tua coscienza laica. Chiedi un minuto per organizzare i pensieri e valutare i singoli elementi in gioco. Ebbene, i testimoni di Geova hanno fatto scuola, poi sono spuntati testimoni più efficaci, e Grillo è fra questi. La retorica dell’apocalisse predilige i paragoni estremi, a effetto, e, oltre a rivelare un atteggiamento vanitoso (essere così fortunati da vedere la fine del mondo), focalizza l’attenzione esclusivamente sulla patologia. Niente, soprattutto a noi italiani, fa più piacere della patologia. Commentare il danno già compiuto è inebriante, ci fa sentire superiori, del tipo: “te l’avevo detto, io”. Di contro, pochi si interessano alla fisiologia: sapere come funzionano le cose non suscita grande entusiasmo. Quando la fine del mondo è vicina, non resta che convertirsi al più preso per salvare la pelle, e infatti l’apocalisse è parente stretta, quasi gemella, dell’integralismo. In più, la retorica dell’apocalisse ci costringe sulla difensiva e quindi elaboriamo una sorta di “io minimo”. E c’è un’altra questione da considerare. Chi usa e abusa della retorica dell’apocalisse preferisce esagerare gli aggettivi, perché poi risulta più facile proporre la soluzione. Nel senso che, storditi come siamo dal bagliore della distruzione, tendiamo a credere che esista una soluzione immediata, semplice e a portata di mano. Si tratta quasi sempre di soluzioni che fanno leva sui nostri istinti religiosi, che ci portano a credere che basta la parola magica e tutto si risolve. C’è la crisi energetica? Bene, l’idrogeno è la soluzione. Troppi veleni nei campi? Non preoccupatevi, basta la parola “biologico” e tutto si risolve. Gli allevamenti industriali sono orribili? Torniamo a pascolare all’aperto. Troppe macchine? Usiamo i cammelli. Ma i dati? I numeri? Quanto latte si può tirare fuori da un allevamento in alpeggio? Poco. Quanta terra occorre per mantenere i nostri standard di produzione e fare a meno degli agro farmaci o dei fertilizzanti? Tanta in più, purtroppo. (….) possiamo notare come queste categorie, sapere nostalgico e retorica dell’apocalisse, siano utilizzate e come inquinino la nostra conoscenza (….).Di sicuro, questi vizi culturali non sono attribuibili solo alle popstar, ma sono anche i nostri vizi, o meglio nascono da una sorta di pigrizia culturale, un po’ fisiologica perché siamo nella modernità e abbiamo poco temo per controllare e verificare le affermazioni che leggiamo. Preferiamo scegliere soluzioni poco impegnative, in ultima analisi, indolori. Però si tratta anche di categorie di pensiero ben radicate nel nostro paese, che andrebbero combattute con costanza. Se davvero rimpiangiamo i Tuareg poi si capisce perché perdiamo il gusto della sperimentazione e ci viene a mancare la capacità di vagliare le novità. Si capisce anche perché la metodologia scientifica faccia così fatica e infine, dolorosamente, si comprende anche il motivo per cui i finanziamenti alla ricerca (ossia quello sguardo verso il futuro) siano così bassi. C’è da chiedersi: ma se i valori sono tutti nel passato, se l’apocalisse è in agguato, se tutto questo è vero, allora che possono fare le persone giovani? Che contributi innovativi possono portare alla soluzione di problemi che ci sono, altroché, ma sono purtroppo complessi ed esigono per essere affrontati strumenti nuovi, integrazione costante e scambi culturali? Quale futuro ci aspetta? Il mondo si dovrebbe arrendere a questi nostalgici e apocalittici profeti di sventura? A libro finito, dopo aver letto una lunga serie di bizzarri comportamenti da popstar e soprattutto compreso un insieme di brutali incongruenze, viene voglia di recuperare due approcci: quello della fisiologia e quello della filologia. Essere fisiologi significa innanzitutto sapere come funzionano le cose. Spesso è proprio la nostra ignoranza sul funzionamento di un sistema a produrre danni e distorsioni. La filologia è ancora più necessaria: saper ragionare sulle fonti è di fondamentale importanza per ogni processo conoscitivo e dunque per una buona valutazione delle scelte. Per conoscere il presente bisogna essere archeologi e non nostalgici. Come ci mancano i filologi! Quelle persone che parlano solo dopo aver studiato attentamente i documenti, che sanno leggere un documento scientifico: quelle persone, ancora, che non hanno paura di ragionare sui dati a disposizione. Se avessimo, accanto alle popstar, più fisiologi e filologi, di sicuro la nostra comprensione del mondo migliorerebbe. O forse sarebbe bello se le nostre popstar fossero meno egoiste, meno chiuse nei propri territori tipici e si confrontassero con la cultura degli umili fisiologi e filologi, gli gnomi insomma, quelli che di notte, in segreto, muovono e migliorano il mondo.”

lunedì 17 settembre 2012

Josif Brodskij- Verso il mare della dimenticanza

Non è necessario che tu mi ascolti, non è importante che tu senta le mie parole, / no, non è importante, ma io ti scrivo lo stesso (eppure sapessi com'è strano, per me, scriverti di nuovo, / com'è bizzarro rivivere un addio...) / Ciao, sono io che entro nel tuo silenzio. // Che vuoi che sia se non potrai vedere come qui ritorna primavera / mentre un uccello scuro ricomincia a frequentare questi rami, / proprio quando il vento riappare tra i lampioni, sotto i quali passavi in solitudine. / Torna anche il giorno e con lui il silenzio del tuo amore. // Io sono qui, ancora a passare le ore in quel luogo chiaro che ti vide amare e soffrire... // Difendo in me il ricordo del tuo volto, così inquietamente vinto; / so bene quanto questo ti sia indifferente, e non per cattiveria, bensì solo per la tenerezza / della tua solitudine, per la tua coriacea fermezza, / per il tuo imbarazzo, per quella tua silenziosa gioventù che non perdona. // Tutto quello che valichi e rimuovi / tutto quello che lambisci e poi nascondi, / tutto quello che è stato e ancora è, tutto quello che cancellerai in un colpo / di sera, di mattina, d'inverno, d'estate o a primavera / o sugli spenti prati autunnali - tutto resterà sempre con me. // Io accolgo il tuo regalo, il tuo mai spedito, leggero regalo, / un semplice peccato rimosso che permette però alla mia vita di aprirsi in centinaia di varchi / sull'amicizia che hai voluto concedermi / e che ti restituisco affinché tu non abbia a perderti. // Arrivederci, o magari addio. / Lìbrati, impossèssati del cielo con le ali del silenzio / oppure conquista, con il vascello dell'oblio, il vasto mare della dimenticanza.