mercoledì 10 aprile 2013

L'istruzione rende sottoistruiti- Huizinga

Il contadino, il marinaio, l’artigiano di una volta, nel tesoro delle sue conoscenze pratiche trovava anche lo schema spirituale con cui misurare la vita e il mondo. A meno di essere un chiacchierone – in ogni tempo ce ne furono! – sapeva di essere inadatto a giudicare delle cose estranee al suo ambito. Dove capiva che non arrivava il proprio giudizio, s’inchinava all’autorità. Poteva, nella sua limitatezza, essere saggio. La limitatezza dei suoi modi di esprimersi, puntellata dalla conoscenza delle Sacre Scritture e dei proverbi, gli dava precisamente uno stile e, a volte, lo faceva parere eloquente. La moderna organizzazione per la diffusione del sapere conduce, ahimè, alla perdita dei salutari effetti di quelle limitazioni. L’uomo medio dei paesi occidentali oggi sa un po’ di tutto, e altre cose ancora. Ha il giornale con la colazione, e il bottone della radio a portata di mano. La sera, dopo aver trascorso la giornata in un lavoro o in un negozio che non gli hanno insegnato nulla di essenziale, lo aspetta un film, un giuoco di carte o un’assemblea. [...] Anche dove l’individuo sia animato da un sincero impulso verso il sapere e la bellezza, dato l’ossessionante sviluppo dei mezzi di diffusione meccanica dello scibile, difficilmente egli potrà sottrarsi alla noia di ricevere, bell’e confezionati o strombazzati, giudizi e nozioni. Un sapere, che è a un tempo vario e superficiale, e un orizzonte spirituale che per un occhio non protetto dalla critica è troppo ampio, devono portare inevitabilmente a un indebolimento del giudizio. [...] Il meccanismo dei moderni divertimenti di massa costituisce inoltre, essenzialmente, un impedimento alla concentrazione. L’elemento dell’abbandono e della trasfusione nell’opera d’arte, data la riproduzione meccanica di ciò che si vede e si ode, vien meno per forza. Manca quel ripiegamento su quanto vi è in noi di piú profondo e il senso di ciò che, nel momento, vi è di sacro, sono cose che non possono mancare all’uomo che voglia possedere una cultura. La suggestibilità visiva sempre pronta è il punto attraverso il quale la pubblicità afferra l’uomo moderno, e lo colpisce nel lato debole della sua diminuita capacità di giudicare. Questo vale ugualmente per la pubblicità commerciale come per la propaganda politica. L’annunzio reclamistico con un’immagine impressionante risveglia in noi il pensiero della soddisfazione di un desiderio. Esso dà all’immagine la veste piú sentimentale possibile. Stabilisce uno stato d’animo, e con ciò fa appello alla formazione di un giudizio, che si compie tutto in un rapido istante. Se ci si chiede come di fatto la pubblicità agisca sugli individui, e compia in modo rimunerativo la sua funzione, la risposta non è cosí semplice. L’individuo si risolve egli effettivamente all’acquisto della merce vedendo o leggendo l’annunzio? O questo non fa altro che confermare nel cervello dei piú un ricordo, a cui essi reagiscono meccanicamente? O fa parte del giuoco una tal quale intossicazione cerebrale? Ancor piú difficile da definire è l’effetto della propaganda politica. Quando un individuo si reca alle urne, può egli essere indotto a votare in un senso anziché in un altro dalla vista delle varie spade, falci e martelli, ruote dentate, pugni, soli che spuntano, mani insanguinate ecc., che i partiti gli fanno balenare dinanzi? Non lo sappiamo e possiamo lasciare insoluto il problema. Certo la pubblicità, in tutte le sue forme, specula su un raziocinio indebolito e, grazie alla sua enorme diffusione e importunità, coopera all’indebolimento. Il nostro tempo è pertanto dinanzi al fatto umiliante che due grandi progressi culturali, da cui molto ci si aspettava, l’istruzione obbligatoria e la pubblicità, invece di concorrere all’elevazione del livello culturale, come pareva ovvio, portano con sé, nella loro applicazione, alcuni sintomi di degenerazione e d’indebolimento. Nozioni d’ogni genere, in una misura non mai pensata finora, e allestite in modi non mai immaginati, vengono messe a portata delle masse; ma c’è qual cosa che non va nell’attitudine ad assimilare l’istruzione ricevuta in modo che giovi veramente a vivere. Una sapienza non elaborata è d’ostacolo al raziocinio e sbarra la via alla saggezza. L’istruzione rende sottoistruiti. È un orribile giuoco di parole; ma purtroppo contiene un senso profondo. Huizinga, La crisi della civiltà

Considerazioni antiche sul dolore

"È proprio del dolore non avere vergogna di ripetersi." Emil Cioran Quando ancora inon esisteva una legislazione decisa a rimuovere le cause di sofferenze ed ingiustizie subite da cittadini considerati schiavi, privi di ogni tipo di diritto, ciò che era considerato “dolore” da parte degli uomini liberi, lungi dall'essere legato a questioni materiali, non poteva che essere concepito come un moto originario dell’anima, capace di imprimere al corpo sensazioni sgradevoli che potevano essere controllate con l’astinenza, coltivando l’autarchia, la non dipendenza da nulla di esteriore. Questo uomo greco "libero"che sa di doversi riconoscere limitato eppure fa di tutto per attestare la sua autonomia è già un uomo denso di conflitti che il “conosci te stesso, ma fallo in dialogo che è meglio” non riesce sul serio a rimuovere. Il dolore non svanisce parlando, ma la parola può essere una buona terapia, l’inizio, per dir così, di un processo faticoso che deve vedere coinvolto attivamente il soggetto che patisce, deciso a fare chiarezza razionalmente sulle cause del suo dolore, pronto a non attribuire ad altri responsabilità che sono unicamente sue e determinato a non confondere, semmai, evidenti segni di sopraffazione fisica e morale con determinati servizi fatti per amore o per “dovere”. Se un simile cercare dialetticamente le cause del dolore non avviene grazie ad un’altra voce, un altro punto di vista, il dolore cresce e può originare delle meravigliose attitudini letterarie, diversamente poco probabili. Il che significa che spesso e volentieri si diventa scrittori ed artisti infrangendo il tessuto della lingua e cercando di rimuovere l’istinto al suicidio assorbendolo in vie di fuga estetiche. L’aisthesis viene cioè differita, il dolore preso come un fagotto di cui osservare le varie pieghe, ma senza decomporlo sul serio mai. Continua ad abitare in chi ha buona memoria, perché ogni volta avrà la possibilità di ritornare nuovamente su quelle crepe oscure del suo vivere interiore che non sono percepibili esteriormente, come sa Hegel. Ma che ci sono. Il mito dell’invulnerabilità è del tutto estraneo al pensiero di Gadamer. Ma non a quello greco platonico, che non accentua la carica tragica del dolore umano, preferendo sostenere la via dell’impassibilità, di una scelta prudente dei piaceri e dolori da accogliere nella propria esistenza, dando prova di fedeltà a quel genere misto cui appartiene la vita umana. Perché ciò che Platone ha scelto è una vita misurata e contenitiva di tutto il caos. La strada segnata è quella di un equilibrio dinamico che non ha altro interesse se non quello di conservare e non creare nuovi itinerari possibili, incidendo attivamente nel reale. È una rassegnazione inaudita quella che percorre il Filebo. La visione di una vita come malattia che va curata somministrando adeguatamente le dosi, escludendo tutto il “poter essere”, considerato nocivo perché capace di far vacillare l’ordine comunitario. Quando la fede nella comunità si perde o sfuma sostanzialmente, com’è accaduto in Occidente soprattutto nel secolo scorso dopo la fine delle guerre mondiali, la stessa concezione del dolore subisce un mutamento sostanziale. Essa viene dibattuta in gruppi di aiuto-aiuto, piccole comunità terapeutiche,spesso con finalità disinteressate al profitto, frutto di studi eccellenti di bravi psichiatri che hanno segnato la storia della medicina. Progressivamente, però, la stessa storia della terapia si adatta alle leggi di mercato ed il dolore viene discusso e diventa oggetto di studi sempre più complessi non perché esso sia pericoloso per la pace della comunità, ma perché può essere una merce utile in cui investire e da cui trarre numerosi guadagni nel potente ed inesorabile gioco di potere che regola gli scambi sociali. Lo sfruttamento del dolore del prossimo ha orripilato la filosofia al punto da convincere molti studiosi a convertirsi nelle figure dei consulenti, richiedenti solo un piccolo consenso per aiutare il paziente a trovare in sé vie razionali capaci di liberarlo dalla sofferenza. Ma adesso? Quanti sono i guariti in virtù della virtù? Sarebbe interessante chiederlo. Nessuno può costringerti a stare al discorso se non vuoi. Lo sapeva Platone, che infatti abbandonò i siracusani dopo diversi tentativi e lasciava lo stesso Filebo seduto inclinato, mentre portava avanti le sue finzioni letterario-filosofiche sulla vita buona, finzioni che sapeva non potevano che essere condotte mettendo a tacere, almeno nell’armonia della scrittura dialogica, un ostacolo temibilissimo capace di rinfacciare di continuo l’inconsistenza di tali visioni volte al giusto, al bene ed al vero, che restano giustificabili unicamente nel recinto della ragione dialettica. Entro il quale nessuno assicura vengano effettivamente scrutati, mentre magari Filebo si trattiene dal dolore e conosce il piacere, proprio per la sua mancata partecipazione al faticoso gioco filosofico, in cui non è prevista alcun'educazione effettiva al raggiungimento del piacere. "Il saggio cerca di raggiungere l'assenza di dolore, non il piacere", scrive Aristotele nel IV libro dell'Etica Nicomachea.