mercoledì 10 settembre 2014

Cosa sarai domani Palermo?

Fermenti. Lasciarsi scombussolare dalla vita senza imporle regole rigide che delimitino invano la sua aspirazione incessante a essere tutto, tutto contenere, tutto abbracciare. La noia e l’impegno, la gioia e l’angoscia, il brivido sulla schiena e il prurito sotto il piede. 

Nulla sta fermo finché ci siamo.

 Tutto si sperimenta, ci sperimenta, attraversando le narici e i lobi, accatastandosi nei bulbi oculari e nelle unghie senza posa, come se l’infinita successione dei giorni non avesse mai una fine possibile. 

E in fondo è proprio così, la fine non esiste. La fine di uno stato è l’inizio di un altro. Trasmutazioni permanenti, lavorio continuo che confonde ogni certezza senza depredare l’Assoluto, che mai ci è apparso così importante reclamare e tornare ad adorare.
 Elevarsi è conditio sine qua non per riscoprire l’uomo oltre le più becere antropologie, pronte a esaltarne solo la parte istintiva ed  animalesca, non vedendone le più o meno nascoste potenzialità che lo spingono a essere un animale simbolico, carente di forza e costretto, perciò, a sublimare i moti più fisiologici e brutali, mediare, fare spazio a qualcosa di superore, creare, insomma, per contenere e resistere alla morte e alla sopraffazione dei più “adatti”.

 Chi sarebbero? Gli “integrati”, quelli potenti perché espressione pienamente omologata della moda imperante; il branco che idolatra e non pensa, la pancia molle dell’umanità che non è mai sazia e però, pur non rappresentando l’intero, ma solo la sua parte più ingorda - e che vive nell’assenza di misura tanto delle sue avide ambizioni, quanto della sua indolente stupidità-, rischia di connotarla in modo predominante e univoco

Non a loro, amiche e amici miei, non a questa triste tracotanza nel farsi apparenti padroni del mondo occorre guardare per compensare la naturale tendenza all’abbattimento dell’essere umano.

 Il vero coraggio nasce nel momento in cui lo scopo prefissato è un incremento d’essere, non di “avere”, e il prezzo che si è disposti a pagare per lo sforzo richiesto per raggiungerlo appare sempre poco rispetto alla mèta da conquistare.

 La mia città è una terra dannata, disperata, sofferente e incapace (apparentemente) di redenzione.
 I modelli eccellenti che essa stessa ha prodotto e a cui sarebbe obbligatorio ispirarsi per il suo riscatto, da tempo sembrano soffocati dall’ignoranza e dalla volontà di raggiungere un successo immediato ed esclusivamente materiale, senza nessuna cura per i mezzi da impiegare in una fantomatica ascesa sociale che prevede al suo apice l’illimitato Potere, in barba a ogni limite e rispetto degli altri. 
Belluscone di Maresco è un’opera sconsolante che descrive la maggioranza della popolazione palermitana, verso la quale il regista non prova più la pietà mostrata in passato per un Paviglianiti o un Giordano. 
Maresco non riesce a nascondere la nausea, il disgusto totale per questo tipo di cultura berlusconiana che ha vinto grazia alla mafia e della mafia si è nutrita continuamente per accrescere il suo impero. 
Nel suo film non ci sono vie d’uscita allo sfacelo attuale. 
Mentre scorrono i titoli di coda, scorrono immagini che mostrano una classe “borghese” (i gggiovani del Kalhesa) che, quando riesce a capire cosa le si domandi, nega l’esistenza della trattativa Stato-Mafia e non ha memoria delle date che hanno segnato in modo indelebile la storia cittadina. Loro non sono affatto migliori delle ragazzine urlanti sotto il palco allestito a Brancaccio per l’esibizione di Vittorio Ricciardi, né sono superiori ai periferici che aspettano il ritorno di Silvio, giudicano la più grande ignominia l’accostamento all’essere “sbirro” e salutano “gli ospiti dello Stato”dal programma del mitico impresario Ciccio Mira. 

L’assenza di coscienza civica è trasversale alle classi di appartenenza: non c’è sentore alcuno di rispetto per le istituzioni e amore per il bene comune, né a Villagrazia né in via Libertà.

Sporcarsi e sporcare, senza pena per chi verrà, è stato il monito che ha guidato un intero Paese nei decenni trascorsi sotto la Democrazia Cristiana, ma è stato certamente Silvio a dare un colpo di grazia decisivo a quella fiducia nello Stato che occorreva disintegrare per creare una società collusa, priva di quella spina dorsale necessaria per combattere fermamente tutti quei comportamenti illeciti dei singoli che finiscono con il gravare sull’intera collettività.
 Ci siamo abituati al mostro individualista del berlusconismo propagato dalle sue reti al punto da non trovare più sconcertante l’utilizzo della televisione per la diseducazione delle masse. 
La volgarità non scandalizza più. 
 Niente viene più difeso con la stessa intensità con la quale hanno lottato per ideali di giustizia Rizzotto Peppino, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e le altre centinaia di vittime che la mafia ha mietuto nel secolo scorso, quando magari ancora era più “galante”nei confronti delle donne (dice Ciccio Mira) e non si era confusa del tutto con il mondo della finanza e della politica. 
Il miracolo negli ultimi vent’anni è apparso davvero conoscere Berlusconi, entrare nelle sue grazie o nelle sue televisioni per diventare qualcuno e non doversi più confrontare con la vita misera, tanto di periferia quanto del centro. 

Perché non conta dove nasci quando non hai più la capacità di cercare e proteggere la bellezza, la verità e la giustizia. Potresti abitare di fronte alla Cattedrale, andare a correre a Mondello al tramonto, prenderti poi un aperitivo alla Cala e cenare a Monreale senza che il tuo sguardo torni a essere vivo e capace di inseguire ciò che è importante, distinguendolo dai falsi miti e dalle ridicole bugie con cui la massa intontita da sempre ama ubriacarsi, ma che oggi sembra abbia sul serio raggiunto l’acme del suo inebetimento. 
Su una cosa il Dell’Utri intervistato poco felicemente da Maresco ha ragione:
 Vogliono dormire e non migliorare questi siciliani, come sapeva il principe del Gattopardo
Non dimentichiamoci mai, però, che uno dei più abili fabbricanti di narcotici sia stato proprio lui, Marcellino, oggi ospite in un altro Stato, perché d’andare in galera per quelli come lui non se ne parla.
 Quella è sorte che tocca ai Ciccio Mira, che quindi, con un misto di disapprovazione e pietà, ci toccherà salutare. 

Chi sarà il prossimo? E, soprattutto, servirà a qualcosa distinguere il corrotto dall'onesto? Varrà qualcosa impegnarsi nel titanico sforzo di scongiurare il pericolo nascosto nell'assorbimento dell'idea di comunità in quella di un coacervo che appiattisce tutto e tutti nell'indifferenziato? Laddove a Maresco è parso esserci solo desolazione senza fondo e senza speranza, possiamo sperare che seguirà un moto improvviso di risalita che mostri l'umano e la fierezza dei suoi ideali anche qui?

 Sto per diventare madre e devo per forza credere che sì, oltre a Belluscone, possa iniziare un'altra storia siciliana.

giovedì 26 giugno 2014

ESSERE RIVOLUZIONE

 Chi può permettersi di non pensare al denaro ormai raramente incontra la mia simpatia.

 Ignaro, come ignara ero io, dell' immenso privilegio che è questa mancata preoccupazione, questi osserva con noia e fastidio chi perde il sonno appresso alle cifre, cercando a tutti i costi di far quadrare i conti non certo per amore pitagorico verso i numeri, ma solo per tentare di sopravvivere e scalzare l'angoscia di superare la soglia oltre la quale comincia la più nera povertà. 

Può anche darsi che quest'ultima affascini il nostro fortunato benestante come fosse una condizione dello spirito sublime per ricevere la grazia di Dio o attuare un processo misticheggiante di kènosis che lo spogli di ogni superflua incrostazione, mentale e non. Ma è facile pensare con voluttà al vuoto quando si ha lo stomaco pieno e una bolletta non è mai stata un problema.

 Di questo il borghese di cui parlo appare spesso essere cosciente ed è per questo che ciclicamente attraversa  fasi di incondizionata passione sociopolitica, studiando i modi che crede più efficaci per garantire la giustizia sociale tra i suoi simili e diffondere uno stile di vita sobrio che assecondi una decrescita felice, dopo che a godere dei benefici del capitalismo sono stati probabilmente i genitori suoi e di quei suoi cari amici che oggi mangiano bio, concentrando nello stomaco il campo della vera rivoluzione.

Ridimensionare le pene di chi affoga nella più tetra disperazione, però, può accadere solo se si conosce almeno un po' la paura degli stenti; solo se si è stati almeno una volta sull' orlo del fallimento e si è temuto di non avere di che cibarsi per giorni interi, lottando per ottenere qualche spicciolo con cui "autoconservarsi".

Se si guarda l'umanità spogli di ideologia- operazione praticamente impossibile, cui pure ci si deve sforzare di mirare- , si troverà infatti come questa non sia una moltitudine tanto attiva e protagonista indiscussa della vita della società come pensa Negri, ma, purtroppo, per lo più una marea di donne e uomini strozzati dalla paura di non farcela, schiacciati dall'angoscia delle spese al punto da perdere lo slancio e l'inventiva per ottenere con il sudore della propria fronte qualche bene primario. 

Mantenere la calma e cercare la via d' uscita al dramma della miseria è impresa straordinaria, concessa di solito a chi se non ottiene un lavoro, trova comunque un sostegno nella famiglia. Per il resto, laddove questa non possa aiutare, ci si dovrebbe rivolgere allo Stato, che altrove riesce a mostrare il suo volto benevolo, andando incontro a licenziati, disoccupati e minoranze-maggioranze a rischio emarginazione. Per l' opinione pubblica si diventa così dei meschini questuanti che vivacchiano sulle spalle di chi fatica; dei parassiti disgustosi che non hanno alcun consenso in società e non sempre si raggelano specchiandosi nell' immagine di condanna che la comunità offre di loro. Non lavorare è consentito solo dopo che si è prestato servizio in modo onesto, accrescendo con il proprio contributo il pil del proprio Paese, dicono.  
 Anche quando il lavoro risulta del tutto inutile, è visto con occhio migliore dell' ozio, nemico acerrimo dell' ordine sociale. 

Ma chi, pur non volendolo, si trova a oziare,  è giusto che, pur di impiegarsi in qualche modo così da fuggire le accuse che pioverebbero sul suo capo, rinunci al sogno che aveva e attraverso cui, magari, pensava di poter contribuire seriamente alla crescita economica e culturale della nazione? 

Bisognerebbe cercare di rianimare il tessuto sociale, scorticato dall' accidia indotta dalla dilagante disoccupazione, e opporsi con fermezza alla richiesta di "sprecarsi pur di sopravvivere", mostrandosi, al contrario, fedeli alle proprie radici, alle scelte dolorose del passato, così da dare senso al percorso di formazione che c'è stato (ammesso, naturalmente, che ci sia stato!). 

Per essere rivoluzione, oggi non ci si deve automutilare, ma tornare a insistere perché le passioni dominanti riemergano e ci si riscopra un tassello unico nel mosaico umano, che urge rispettare nella sua diversità e incomparabilità al suo vicino, cui lo lega tuttavia sempre l'aspirazione a un disegno comune. 

Non si può essere sempre interscambiabili, come ci ha abituati a pensare quest'epoca di precariato devastante. 

Occorre diventare bravi, bravissimi nel proprio mestiere e non svendersi, se non per brevi periodi che non compromettano comunque l'obiettivo centrale di praticare ciò che amiamo di più. 

Chi finisce per trascorrere la vita senza fare ciò che desidera, alla fine avrà ceduto alle pressioni del capitale, addomesticando con violenza una passione costretta prima o poi a liberarsi dalle catene della repressione, rivelando in seguito la vera natura dell'aria frustrata con cui si trascineranno cupamente le giornate.In sintesi, essere rivoluzione implica almeno tre importanti, seppur financo banali, condizioni:
1) Formare con pazienza e costanza sé stessi, che è il primo compito che spetta a ogni essere umano autentico;
2) Calare nella realtà il frutto di quella formazione, senza stancarsi di contrastare la tendenza al livellamento conformistico,  è il compito secondario, solo cronologicamente;
3) Infine, avere sempre cari la fatica e il sacrificio, perché nulla ci viene regalato in questa vita e solo chi combatte con energia lascia tracce importanti nella vita comunitaria. 

Quest'ultima, infatti, prosegue unicamente grazie a chi si spende per il suo miglioramento, superando la grettezza individualistica che fa terminare nell' oggi tutti i suoi dissennati sforzi di fuggire la morte con la vanità.
E tu, sei pronto a rivoluzionarti per rivoluzionare, senza tradire mai te stesso?