Nulla
sta fermo finché ci siamo.
Tutto si sperimenta, ci sperimenta,
attraversando le narici e i lobi, accatastandosi nei bulbi oculari e
nelle unghie senza posa, come se l’infinita successione dei giorni non
avesse mai una fine possibile.
E in fondo è proprio così, la fine non
esiste. La fine di uno stato è l’inizio di un altro. Trasmutazioni
permanenti, lavorio continuo che confonde ogni certezza senza depredare
l’Assoluto, che mai ci è apparso così importante reclamare e tornare ad
adorare.
Elevarsi è conditio sine qua non per riscoprire l’uomo oltre le più
becere antropologie, pronte a esaltarne solo la parte istintiva ed animalesca, non vedendone le più o meno nascoste potenzialità che lo
spingono a essere un animale simbolico, carente di forza e costretto,
perciò, a sublimare i moti più fisiologici e brutali, mediare, fare
spazio a qualcosa di superore, creare, insomma, per contenere e
resistere alla morte e alla sopraffazione dei più “adatti”.
Chi
sarebbero? Gli “integrati”, quelli potenti perché espressione pienamente
omologata della moda imperante; il branco che idolatra e non pensa, la
pancia molle dell’umanità che non è mai sazia e però, pur non rappresentando l’intero, ma solo la sua parte più ingorda - e che vive nell’assenza di
misura tanto delle sue avide ambizioni, quanto della sua indolente
stupidità-, rischia di connotarla in modo predominante e univoco.
Non a
loro, amiche e amici miei, non a questa triste tracotanza nel farsi
apparenti padroni del mondo occorre guardare per compensare la naturale
tendenza all’abbattimento dell’essere umano.
Il vero coraggio nasce nel momento in cui lo scopo prefissato è un
incremento d’essere, non di “avere”, e il prezzo che si è disposti a
pagare per lo sforzo richiesto per raggiungerlo appare sempre poco
rispetto alla mèta da conquistare.
La mia città è una terra dannata, disperata, sofferente e incapace
(apparentemente) di redenzione.
I modelli eccellenti che essa stessa ha prodotto e a cui sarebbe
obbligatorio ispirarsi per il suo riscatto, da tempo sembrano soffocati
dall’ignoranza e dalla volontà di raggiungere un successo immediato ed
esclusivamente materiale, senza nessuna cura per i mezzi da impiegare in
una fantomatica ascesa sociale che prevede al suo apice l’illimitato
Potere, in barba a ogni limite e rispetto degli altri.
Belluscone di Maresco è un’opera sconsolante che descrive la maggioranza
della popolazione palermitana, verso la quale il regista non prova più
la pietà mostrata in passato per un Paviglianiti o un Giordano.
Maresco
non riesce a nascondere la nausea, il disgusto totale per questo tipo di
cultura berlusconiana che ha vinto grazia alla mafia e della mafia si è
nutrita continuamente per accrescere il suo impero.
Nel suo film non ci
sono vie d’uscita allo sfacelo attuale.
Mentre scorrono i titoli di
coda, scorrono immagini che mostrano una classe “borghese” (i gggiovani
del Kalhesa) che, quando riesce a capire cosa le si domandi, nega
l’esistenza della trattativa Stato-Mafia e non ha memoria delle date che
hanno segnato in modo indelebile la storia cittadina.
Loro non sono affatto migliori delle ragazzine urlanti sotto il palco
allestito a Brancaccio per l’esibizione di Vittorio Ricciardi, né sono
superiori ai periferici che aspettano il ritorno di Silvio, giudicano la
più grande ignominia l’accostamento all’essere “sbirro” e salutano “gli
ospiti dello Stato”dal programma del mitico impresario Ciccio Mira.
L’assenza di coscienza civica è trasversale alle classi di appartenenza:
non c’è sentore alcuno di rispetto per le istituzioni e amore per il
bene comune, né a Villagrazia né in via Libertà.
Sporcarsi e sporcare, senza pena per chi verrà, è stato il monito che ha
guidato un intero Paese nei decenni trascorsi sotto la Democrazia
Cristiana, ma è stato certamente Silvio a dare un colpo di grazia
decisivo a quella fiducia nello Stato che occorreva disintegrare per
creare una società collusa, priva di quella spina dorsale necessaria per combattere
fermamente tutti quei comportamenti illeciti dei singoli che finiscono
con il gravare sull’intera collettività.
Ci siamo abituati al mostro individualista del berlusconismo propagato
dalle sue reti al punto da non trovare più sconcertante l’utilizzo della
televisione per la diseducazione delle masse.
La volgarità non
scandalizza più.
Niente viene più difeso con la stessa intensità con la
quale hanno lottato per ideali di giustizia Rizzotto Peppino, Giovanni
Falcone, Paolo Borsellino e le altre centinaia di vittime che la mafia
ha mietuto nel secolo scorso, quando magari ancora era più “galante”nei
confronti delle donne (dice Ciccio Mira) e non si era confusa del tutto
con il mondo della finanza e della politica.
Il miracolo negli ultimi vent’anni è apparso davvero conoscere
Berlusconi, entrare nelle sue grazie o nelle sue televisioni per
diventare qualcuno e non doversi più confrontare con la vita misera,
tanto di periferia quanto del centro.
Perché non conta dove nasci quando
non hai più la capacità di cercare e proteggere la bellezza, la verità e
la giustizia. Potresti abitare di fronte alla Cattedrale, andare a
correre a Mondello al tramonto, prenderti poi un aperitivo alla Cala e
cenare a Monreale senza che il tuo sguardo torni a essere vivo e capace
di inseguire ciò che è importante, distinguendolo dai falsi miti e dalle
ridicole bugie con cui la massa intontita da sempre ama ubriacarsi, ma
che oggi sembra abbia sul serio raggiunto l’acme del suo inebetimento.
Su una cosa il Dell’Utri intervistato poco felicemente da Maresco ha
ragione:
Vogliono dormire e non migliorare questi siciliani, come sapeva
il principe del Gattopardo.
Non dimentichiamoci mai, però, che uno dei
più abili fabbricanti di narcotici sia stato proprio lui, Marcellino,
oggi ospite in un altro Stato, perché d’andare in galera per quelli come
lui non se ne parla.
Quella è sorte che tocca ai Ciccio Mira, che quindi, con un misto di
disapprovazione e pietà, ci toccherà salutare.
Chi sarà il prossimo? E, soprattutto, servirà a qualcosa distinguere il
corrotto dall'onesto? Varrà qualcosa impegnarsi nel titanico sforzo di
scongiurare il pericolo nascosto nell'assorbimento dell'idea di comunità
in quella di un coacervo che appiattisce tutto e tutti
nell'indifferenziato?
Laddove a Maresco è parso esserci solo desolazione senza fondo e senza
speranza, possiamo sperare che seguirà un moto improvviso di risalita
che mostri l'umano e la fierezza dei suoi ideali anche qui?
Sto per diventare madre e devo per forza credere che sì, oltre a
Belluscone, possa iniziare un'altra storia siciliana.