sabato 12 dicembre 2009

Nessuna paura di morire

L'uomo libero, cioè colui che vive sotto la sola guida della ragione, non è guidato dalla paura della morte, ma desidera direttamente il bene, cioè agire, vivere, conservare il proprio essere avendo quale fondamento la ricerca del proprio utile; perciò a nulla pensa meno che alla morte e la sua saggezza è una meditazione della vita (Spinoza)

mercoledì 11 novembre 2009

Al di là del bene e del male

Vagando tra le molte più raffinate e più rozze morali che hanno sin qui regnato sulla Terra o che ancora vi regnano, ho regolarmente trovato determinati tratti ricorrenti e tra loro collegati: sino che alla fine mi si rivelarono due tipi base e saltò fuori una differenza radicale.
C’è una morale dei padroni e una morale degli schiavi; aggiungo immediatamente che in tutte le culture superiori e più miste si presentano anche tentativi di mediazione tra le due morali e più spesso ancora la confusione tra le due e il reciproco fraintendimento, addirittura il loro duro parallelismo, persino nello stesso individuo, all’interno della stessa anima.
Le differenziazioni morali di valori sono nate o sotto una specie dominante, che prendeva coscienza con piacere delle proprie differenze rispetto ai sudditi, o sotto i sudditi, gli schiavi e i sottoposti di ogni grado. Nel primo caso, quando sono i dominatori a determinare il concetto di buono, vengono recepiti come distintivi e determinanti gli stati elevati e fieri dell’anima. L’uomo nobile separa da sé le creature nelle quali si manifesta il contrario di simili elevati e fieri stati: egli li disprezza.
Si noti subito che in questa prima morale il contrasto buono e non buono significa nobile e spregevole: il contrasto buono e cattivo ha un’altra origine. Si disprezza il vile, il pauroso, il meschino, colui che pensa all’angusta utilità; altrettanto il diffidente, con il suo sguardo non franco, colui che si umilia da sé, la specie degli esseri-umani-cane che si lascia maltrattare l’adulatore mendico, soprattutto il bugiardo: fede basilare di tutti gli aristocratici è che il popolo vile mente. Noi veritieri, così si chiamavano nell’antica Grecia i nobili.
È noto che le definizioni di valore morale sono state ovunque attribuite prima agli esseri umani e solo successivamente deviate sulle azioni; motivo per cui è un grave errore che gli storici della morale prendano l’avvio da interrogativi quali: perché è stata lodata l’azione compassionevole?
La specie degli uomini nobili sente come determinante di valori se stessa: non ha bisogno di farsi chiamare buona, essa pensa che ciò che mi danneggia è di per sé dannoso, essa sa di essere l’elemento che conferisce il primo valore alle cose, è creatrice di valori. Onora tutto ciò che conosce di sé: una morale simile è autoglorificazione.
Sullo sfondo c’è la sensazione di pienezza, di potere che vuole straripare, la felicità della massima tensione, la consapevolezza di una ricchezza che vorrebbe donare e rimettere: anche il nobile aiuta l’infelice, ma non, o quasi non, per compassione, piuttosto per un impulso generato dalla sovrabbondanza di potere…
Diversamente stanno le cose con il secondo tipo di morale, la morale degli schiavi. Posto che i violentati, gli oppressi, i sofferenti, i prigionieri, gli incerti di sé e gli stanchi facciano morale: quale sarà l’elemento comune alle loro valutazioni morali? Probabilmente troverà espressione un sospetto pessimista verso l’intera situazione umana, forse una condanna dell’essere umano e della sua situazione. L’occhio degli schiavi non è favorevole alle virtù dei potenti: è scettico e sfiduciato, ha una sottile sfiducia verso ogni bene che viene venerato nel mondo dei potenti, vorrebbe convincersi che là persino la felicità non è autentica.
Al contrario vengono messe in evidenza e soffuse di luce le caratteristiche che servono a facilitare l’esistenza ai sofferenti: ecco che vengono esaltati la compassione, la mano compiacente e disposta ad aiutare, il cuore caldo, la pazienza, la laboriosità, l’umiltà, la cordialità; giacché in questo caso sono le caratteristiche più utili e quasi l’unico rimedio per sopportare l’oppressione dell’esistenza.
La morale degli schiavi è essenzialmente una morale utilitaria. Qui c’è il focolaio di quei famosi contrari buono e cattivo: nel male si sente il potere e la pericolosità, una certa spaventosità, finezza e forza che non consentono al disprezzo di affiorare.

Friedrich Nietzsche


Prima o poi scriverò un post su "valore", "disvalore", "uomo", "etica", "schiavo", "padrone", "dignità", "superuomo", "morte di Dio" e tanto altro... Tanto qui si scrive, incollando qualcosa che merita riflessioni che un blog, una lettera, un articolo non cattureranno mai.
Amo Nietzsche e lo odio con la stessa intensità.
Mi fa vergognare di me stessa e mi fa deridere l'umanità intera al tempo stesso..Spesso ho detto che non mi sembrerebbe così folle trovarmi ad abbracciare un cavallo, ma la mia è solo incoscienza stupida, di picciridda che deve crescere, al di là del bene e del male... Viva i frammenti, l'assenza di senso, il caos...Peccato studiare Gadamer e Platone, non ho l'età, ma è qui che mi trovo e non posso sempre solamente decostruire ... Il mio sì alla vita, per adesso, è questo:)

venerdì 6 novembre 2009

Distrarsi per non morire... Pascal ed il diverstissment

Noia. Niente per l'uomo è insopportabile come l'essere in pieno riposo, senza passioni, senza affari da sbrigare, senza svaghi, senza un'occupazione. Egli avverte allora la sua nullità, il suo abbandono, la sua insufficienza, la sua dipendenza, la sua impotenza, il suo vuoto. Subito si leveranno dal fondo della sua anima la noia, la malinconia, la tristezza, l'afflizione, il dispetto, la disperazione.

Distrazione. Delle volte mi sono messo a considerare le diverse forme di agitazione degli animi, e i pericoli e le fatiche a cui si espongono, a corte come in guerra, e donde nascano tante contese, passioni, imprese audaci e spesso dissennate. Ho scoperto che l'infelicità degli uomini deriva da una sola cosa, che è quella di non riuscire a starsene tranquilli in una stanza.

Un uomo che ha mezzi sufficienti per vivere, se sapesse starsene a casa sua traendone piacere, non uscirebbe per mettersi in mare o all'assedio di una postazione. Non si comprerebbe così a caro prezzo un grado nell'esercito, se non trovasse insopportabile non andar via di città;e cerca le conversazioni e gli svaghi dei giochi solo perchè non riesce a stare in casa con piacere.

Ma quando ci ho maggiormente riflettuto e, dopo aver trovato la causa di tutti i nostri mali, ne ho voluta scoprire la ragione, mi sono reso conto che ce n'è una molto concreta, che consiste nell'infelicità intrinseca della nostra condizione debole e mortale, e così miserabile che niente ce ne può consolare, quando ci soffermiamo a pensarci.

Qualunque condizione ci si immagini, se si mettono assieme tutti i beni che si possono avere, l'essere re è la più bella condizione del mondo, ma ci si immagina tuttavia un re accompagnato da tutte le soddisfazioni che può prendersi. Se lo si immagina invece privo di svaghi mentre valuta e riflette su ciò che è, felicità e mollezze non lo sorreggeranno più, egli soccomberà inevitabilmente di fronte alle minacce che vede, alle rivolte che possono verificarsi, e infine alla morte e alle malattie che sono inevitabili; e così, se è privato di ciò che si chiama distrazione, eccolo infelice, più infelice ancora del più misero dei suoi sudditi che giochi e si possa distrarre.

Da ciò si desume perchè il gioco e la ricerca della compagnia femminile, la guerra, le alte cariche siano mete tanto ambite. Non che vi si trovi effettivamente della felicità, né che ci si immagini che la vera beatitudine consista nel denaro che si può vincere al gioco, o in una lepre che corre: non si accetterebbero come doni, se fossero offerti.

Non è questo possesso, molle e placido, e che ci lascia pensare all'infelicità della nostra condizione, che si ricerca, né i pericoli della guerra, né gli affanni delle cariche, ma è il frastuono che ci distoglie dal pensarci e ci distrae. ragion per cui si ama di più la caccia che la preda.

Ciò spiega il fatto che gli uomini amano tanto il chiasso e la confusione; ciò spiega perchè la prigione è una pena tanto orribile; ciò spiega perchè il piacere della solitudine è una cosa incomprensibile. E, infine, spiega che la ragione principale della felicità della condizione dei re è che tutti si sforzano incessantemente di distrarli e di procurar loro ogni sorta di piaceri.

Il re è circondato da persone che non pensano ad altro che a divertire il re e a impedirgli di pensare a se stesso. Perché è infelice, anche se è un re, se ci pensa. Ecco tutto quello che gli uomini hanno potuto inventarsi per rendersi felici.
E quelli che sull'argomento fanno della filosofia, e che giudicano assai poco ragionevole che la gente passi l'intera giornata a correr dietro a una lepre che non si vorrebbe aver comperato, non capiscono nulla della nostra natura. Quella lepre non ci impedirebbe la vista della morte e delle altre miserie, ma la caccia, che ce ne distrae, può farlo.
Essi si immaginano che, una volta ottenuta una certa carica, potrebbero subito riposarsi con piacere, e non avvertono la natura insaziabile della loro avidità. Credono sinceramente di cercare il riposo, e non cercano di fatto che l'agitazione. Sono mossi da un istinto segreto che li porta a cercare occupazioni e distrazioni all'esterno, che si origina dal sentimento delle loro miserie incessanti.

Sono però mossi anche da un altro istinto segreto, che è la traccia della grandezza della nostra natura primigenia, che fa intuire loro che la vera felicità non risiede in effetti che nella quiete, non nel trambusto; e da questi due istinti contrastanti si origina in loro un confuso proposito, che si nasconde ai loro occhi nel fondo della loro anima, che li spinge a tendere al riposo attraverso l'agitazione e a immaginare sempre che l'appagamento di cui non godono arriverà se, una volta superate alcune difficoltà messe in conto, potranno in questo modo aprirsi la via al riposo.

Così scorre tutta la vita. Si cerca il riposo combattendo una serie di ostacoli; e, una volta che li si è superati, il riposo diventa insopportabile; perchè si pensa alle miserie in cui ci si trova o a quelle che ci minacciano. E quand'anche ci si vedesse abbastanza al riparo da tutte le parti, la noia, di sua privata autorità, non farebbe a meno di venire a galla dal fondo del cuore, dove è naturalmente radicata, e di riempire lo spirito con il suo veleno.

domenica 11 ottobre 2009

vecchi pensieri sulle "illusioni"...

Come si può non dare significato?
Analizzare tutto attraverso la griglia della violenza che scorge in ogni operazione un che di “volontà di potenza”, dominio, di chi non riesce a restare nei limiti del suo non-sapere e vuole, nevroticamente, capire, capire, conoscere, illudendosi sia possibile sul serio farlo, diventa il modo peggiore per estirpare non solo creatività, ma anche profondità a ciò che l’uomo può essere.
Io ho sempre cercato l’umano. Per me la filosofia è una nobile strada che, accanto alla poesia, alla letteratura, a tutto ciò che non vuol misurare scientificamente, pur non essendoci nella mia visione mai stata- o meglio, essendoci stata ed essendo a furia di ragionamenti tramontata- un’identificazione di tutto ciò che è scientifico con qualcosa di“criminale”, immorale, incapace di dar pienezza come solo le arti possono fare-, ebbene è una nobile strada che cerca ciò che compete all’uomo, alla sua possibile felicità, intesa su un piano necessariamente comunitario.
Se non si radica nella comunità, la filosofia non esiste. Se ciò che cerco di elaborare con le mie ricerche è una verità per me, che gonfi e rigoonfi il mio già troppo ipertrofico ego, la filosofia è un’orrenda forma di vanità che mi illude però di star compiendo mirabili passi avanti nell’elevazione dell’umanità.
Io intendo da un po’ di tempo l’espressione “strada dell’umanità” come la strada che porta verso la realizzazione di un umano che ancora non esiste e penso che Nietzsche si sia sbagliato nel cercare il superuomo, non avendo ancora ben compreso, a mio avviso, come neppure l’uomo fosse mai effettivamente ancora venuto fuori da tante pastoie, da tanti gorghi della sua miseria che, non tanto per l’approssimazione alle bestie, quanto per un’incapacità di immaginare radicalmente quali sono le sue immense potenzialità, l’hanno reso spesso troppo sbiadito e avvilito, nel condurre esistenze scialbe, mutilate di sensi, sperimentazione di poesia, giochi intellettuali, visioni, scorci di bellezza, che è ciò che ci auguriamo possa poter vedere ed apprezzare anche l’ultimo degli uomini, occidentali e non, se è il vedere il senso più sviluppato che più di tutti amiamo e che appartiene anche ai ciechi, essendo capace chiunque di osservare anche l’invisibile, se solo si sa lasciar andare.
Insomma. Il dare significato, cercare senso, cercare verità, tante espressioni che da Nietzsche in poi risultano sospette, di chi vuole inchiodare il divenire ad un’ipostatizzazione della realtà, ripudiare il suo legame con la terra e replicare una morale debole da schiavi, che non osano sul serio ribellarsi a ciò che è più comodo accettare per non mettere a repentaglio la propria esistenza, sono espressioni che per me vanno riesaminate nel loro senso più specifico. E , se lo si farà, si ammetterà che gli appunti contro una debolezza nietzschiani restano, solo che ciò che si cerca non è lo Uebermensch, ma l’uomo, colui che risorge ogni giorno, se riesce a sperare, se riesce ancora ad illudersi, forse, di poter andare oltre sé, “sentendo” una rete di comuni progetti intorno a sé, cui partecipare, nel mantenimento della sua irriducibile differenza.
Scriveva Virginia Woolf: Le illusioni sono per l’anima quello che l’atmosfera è per la terra. Toglietele quella tenera coltre d’aria e vedrete le piante morire, i colori svanire.
Virginia Woolf, Orlando
Le illusioni non devono per nessuna ragione sparire dall’orizzonte umano. Io qui parlo di esperienze personali, ma andare in rotta con le proprie illusioni, ingaggiare una battaglia contro ciascuno dei propri pregiudizi coltivati nel tessuto familiare, culturale e via dicendo, più che accendere l’orgoglio di saper dire no e saper distinguersi dalla massa, non provoca. Decostruire la storia, la famiglia, i rapporti di parentela, l’amicizia, decostruire l’amore, la filosofia, rintracciando in ogni cosa elementi insostenibili che ne garantiscono inaffidabilità e nessuna durevolezza, sono operazioni imprescindibili. Ma se non segue non una “costruzione” certa, ma una riconfigurazione dello sguardo, uccidere una per una le fonti sicure del benessere dell’infanzia, analizzare con cinismo l’inutilità di tutto ciò che ci piaceva prima di “capire”, cosa fanno se non replicare il pericolo che ciò che più interessi l’uomo tutelare è proprio la stabilità e, scorgendo come niente gliela possa garantire, si possa dunque immaginare una vita priva di queste ingannevoli forme in cui gli altri ( non avendo sufficiente spirito critico, penserà) sembrano muoversi con agio e slancio, con una freschezza, un entusiasmo, che il vaglio rigoroso del ragionare ha spezzato, si spera non per sempre?
Ecco qual è la differenza… per Nietzsche da tutto ciò si doveva uscire per restare fedeli alla terra.
Ma gli uomini che oggi abbiamo intorno somigliano più a don Giovanni kierkegaardiani che a furia di restare fedeli alla terra, hanno svuotato ed insterilito ogni illusione, pensando dopo tutto di poterne fare a meno, ed i filosofi, invece, le hanno osservate come piccolezze cariche talvolta di importanza, ma nulle rispetto a quell’amore per la ricerca mediata dai testi che può essere spesso portata avanti, trangugiata, dimenticando gli esseri umani che intorno ci chiedono la loro attenzione.
Le illusioni, insomma, hanno da tempo una vita molto scomoda. Altro che atmosfera per la terra. Prima le illusioni sono state stropicciate dallo scientismo, il bisogno di dire che qualcosa sia reale, oggettivo, tangibile le ha annientate…
Poi anche in questo bisogno di rintracciare realtà si è intravista un’illusione ed è spesso invalsa la regola heideggeriana dell’attesa messianica di una verità che, essendo storica, l’uomo non ha alcun potere di svelare, pur restando l’unico capace di indagarla a partire da quegli inizi in cui ancora nulla era compromesso, quell’arcadia che sospendeva lo sciocco vociare dei dialettici, essendo la terra dei sapienti, gli dei che, fuggiti, ci hanno lasciato alle nostre questionuccie da poco, al nostro dover parlare, parlare, non radicalizzando la ricerca dell’essere che è la sola che dovremmo, agli occhi heideggeriani, aver cura di portare avanti perché la nostra esistenza sia autentica ( pur non essendo per questo tornaconto personale, di attestato di autenticità, diciamo, che cercare l’essere è un’operazione per Heidegger imprescindibile).
È l’essere che cerca di essere cercato dall’uomo?
Bene, ora dirò qualcosa di ancora più “pericoloso”.
La noia che consuma ogni attività rende presto la stessa ricerca dell’essere heideggeriana un’altra illusione.
Tutto ciò che è umano, questo credo sia il punto focale semplicissimo dell mia osservazione, è destinato a diventare illusione. Perché mantenere un costante senso di meraviglia e passione che voglia coinvolgere chi è altro da me nell’illustrazione dei mie interessi è qualcosa che si va spegnendo a poco a poco, costretto in mille gabbie, semplicemente decresciuto per vecchiaia, naturalissima e foriera di altre qualità, ma spesso distruttrice di quell’impeto che eccita la gioventù e la spinge a confrontarsi inventando se stessa.
Inventando. Invenzione. Illusione. Come possono odiarsi le illusioni? Come può non comprendersi che l’amore ridotto al sesso, fondamentale scambio di energia, tatto, generosità tra due amanti, non è comunque tutto ciò che l’uomo può ancora , pur illudendosi, vivere di magnifico quando, per fortuna, si lascia andare trovando un pò di forza per innamorarsi e legarsi a qualcuno?
Volontà di dominio? Possesso? Ormai siamo pronti a difendere la nostra libertà al punto che non possiamo più perdere tempo- così lo si concepisce- con chi ci piace. Tutto passa nel setaccio dell’indifferenza, perché niente ha più valore. Perché tutto è illusione ed illusoria è l’illusione stessa.
Questo stato di cose, però, io non voglio risolverlo credendo in Dio. Mi dispiace,io credo solo nel divino.
Ed ora che, dopo un’altra morte a stento durata qualche mese, mi sono reimmersa nella vita toccando qualcosa di autentico, sono ritornata in me, a queste visioni semplici, che sempre mi hanno guidato, e che spesso hanno precluso la manifestazione di altro, diventando inni ad una divinità amorosa fini a se stessi.
Non farò niente del genere, ma traggo dalla mia esperienza il conforto per sorvolare sull’astio contro le illusioni e desiderare che tanti, sempre di più intorno, possano lasciarsi trascinare in questo terreno scivoloso, che toglie il fiato, in cui danzi spesso con la morte, sperimentando tutta la tua pochezza tanto da diventar amico-a della tua vulnerabilità, eppure è il solo in cui sorseggio ancora l’infinito, mi vedo per come vengo vista, frantumo illusioni vecchie ormai ridotte a sciocchezze e ne faccio sorger di nuove, alcune delle quali disperderò domani ancora… ma solo così, solo resistendo in un sogno che parte dal reale trasfigurando il reale stesso, io so vivere. Solo così ho scelto di vivere. Inquieta, tremante, con non pochi cali di entusiasmo, ma giusto per poter ricordarmi che è questa la mia dimensione. L’innamoramento perpetuo di ciò che diviene lontano dal mio controllo e che, pure, il fatto di sentirmene partecipe non condanna alla nevrosi del possesso, ma alla vita che è mia non meno di quanto lo sia degli altri.

È possibile la pace?

Essere civili significa o non significa ripudiare la guerra? La civiltà è un male minore o l'origine di tutti i guai? Mi interrogo sul bene e sul male da molto tempo e da molto tempo rigetto ogni forma manichea che li vorrebbe contrapposti. Rousseau ha dei limiti, Kant ne ha altrettanti, e nemmeno i Greci sono inattaccabili, naturalmente (per quanto l'etica aristotelica rimane per me fondamentale..). Ma a parte le infinite disquisizioni dei filosofi sull'argomento, ovviamente arte, letteratura e religione sono terreni esplorabili senza sosta- insieme all'antropologia, la sociologia, la psicologia e tantissime "scienze umane" figlie della Signora filosofia- per cercare qualcosa cui ispirarsi o in cui ritrovare ciò che la propria vita ha già toccato mille volte in forma più o meno "estetica" e "divina".
Beh, l'uomo contemporaneo occidentale fa fatica più di tutti gli altri a credere che la sua "ragione" potrà portarlo lontano dal fare il male, a sè stesso e agli altri. Pur avendo realizzato in molti campi delle conquiste formidabili, è noto ormai spero a tutti quanto il progresso tecnologico non sia per niente eguagliato da quello "morale".
Albert Einstein nel 1932 ricevette dalla Società delle Nazioni l'incarico di avviare un dibattito con uomini di cultura di rilievo, su temi a suo piacimento. Quello che vi riporto è parte di uno scambio epistolare con Sigmund Freud riguardo la possibilità di una pace come segno dell'evoluzione psichica degli uomini.
Non credo lo leggerà nessuno. Ma è splendido nella sua semplicità. E mi andava di condividerlo...

Caro signor Freud,
…vi è una possibilità di dirigere l’evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino più capaci di resistere alle psicosi dell’odio e della distruzione? Molto cordialmente
Suo Albert Einstein


Caro Signor Einstein,
… Lei si meraviglia che sia tanto facile infiammare gli uomini alla guerra, e presume che in essi ci sia effettivamente qualcosa, una pulsione all’odio e alla distruzione, che è pronta ad accogliere un’istigazione siffatta. Non posso far altro che convenire senza riserve con Lei. Noi crediamo all’esistenza di tale pulsione e negli ultimi anni abbiamo appunto tentato di studiare le sue manifestazioni..
Noi presumiamo che le pulsioni dell’uomo siano soltanto di due specie, quelle che tendono a conservare e a unire, da noi chiamata sia erotiche (esattamente nel senso in cui Platone usa il termine Eros nel Simposio) sia sessuali, estendendo intenzionalmente il concetto popolare di sessualità, e quelle che tendono a distruggere e a uccidere; queste ultime le comprendiamo tutte nella denominazione di pulsione aggressiva o distruttiva.
Come Lei vede, si tratta propriamente soltanto della delucidazione teorica della contrapposizione tra amore e odio, universalmente nota, e forse originariamente connessa con la polarità di attrazione e repulsione che interviene anche nel Suo campo di studi.
Non ci chieda ora di passare troppo rapidamente ai valori di bene e di male. Entrambe le pulsioni sono parimenti indispensabili, perché i fenomeni della vita dipendono dal loro concorso e dal loro contrasto.
Ora, sembra che quasi mai una pulsione di un tipo possa agire isolatamente, essa è sempre connessa (legata, come noi diciamo) con un certo ammontare della controparte, che ne modifica la meta o, talvolta, subordina il raggiungimento di quest’ultima a determinate condizioni.
Così, per esempio, la pulsione di autoconservazione è certamente erotica, ma ciò non toglie che debba ricorrere all’aggressività per compiere quanto si ripromette. Allo stesso modo alla pulsione amorosa, rivolta agli oggetti, necessita un quid della pulsione di appropriazione, se veramente vuole impadronirsi del proprio oggetto. La difficoltà di isolare le due specie di pulsioni nelle loro manifestazioni ha fatto sì che per tanto tempo non riuscissimo a identificarle.
Le azioni umane sono soggette anche a un’altra complicazione. È assai raro che l’azione sia opera di un singolo moto pulsionale, il quale d’altronde deve essere già una combinazione di Eros e distruzione. Di regola devono concorrere parecchi motivi similmente strutturati per rendere possibile l’azione… Pertanto, quando gli uomini vengono incitati alla guerra, è possibile che si desti in loro un’intera serie di motivi consenzienti, nobili e volgari, alcuni di cui si parla apertamente e altri che vengono sottaciuti. Non è il caso di enumerarli tutti.
Il piacere di aggredire e di distruggere è certamente uno di essi; innumerevoli crudeltà della storia e della vita quotidiana confermano l’esistenza e la forza dei suddetti piaceri. Il fatto che questi impulsi distruttivi siano mescolati con altri impulsi, erotici e ideali, facilita naturalmente il loro soddisfacimento.
Talvolta, quando sentiamo parlare delle atrocità della storia, abbiamo l’impressione che i motivi ideali siano serviti da mero paravento alle brame di distruzione; altre volte, per esempio per le crudeltà della Santa Inquisizione, che i motivi ideali fossero preminenti nella coscienza, mentre i motivi distruttivi recassero a quelli un rafforzamento inconscio. Entrambi i casi sono possibili…
Vorrei indugiare ancora un attimo sulla nostra pulsione distruttiva, meno nota di quanto richiederebbe la sua importanza. Con un po’ di speculazione ci siamo in effetti persuasi che essa opera in ogni essere vivente e che la sua aspirazione è di portarlo alla rovina, di ricondurre la vita allo stato della materia inanimata. Con tutta la serietà le si addice il nome di pulsione di morte, mentre le pulsioni erotiche stanno a rappresentare gli sforzi verso la vita.
La pulsione di morte diventa pulsione distruttiva allorquando, con l’aiuto di determinati organi, si rivolge all’esterno, contro gli oggetti. Per così dire, l’essere vivente in tanto protegge la propria vita in quanto ne distrugge un’estranea.
Una parte della pulsione di morte, tuttavia, rimane attiva all’interno dell’essere vivente e noi abbiamo tentato di derivare tutta una serie di fenomeni normali e patologici da questa interiorizzazione della pulsione distruttiva.
Siamo perfino giunti all’eresia di spiegare l’origine della nostra coscienza morale con questo rivolgersi dell’aggressività verso l’interno. Noti che non è affatto indifferente se questo processo è spinto troppo oltre; in tal caso sortisce un effetto immediatamente malsano.
Invece il volgersi di queste forze pulsionali distruttive nel mondo esterno scarica l’essere vivente e non può non sortire un effetto benefico. Ciò serve come scusa biologica a tutti gli impulsi esecrabili e perniciosi contro i quali noi ci battiamo.
Si deve ammettere che essi sono più vicini alla natura che la resistenza con cui li contrastiamo e di cui ancora dobbiamo trovare una spiegazione. Lei ha forse l’impressione che le nostre teorie siano una specie di mitologia, neppure lieta in verità. Ma non approda forse ogni scienza naturale a una sorta di mitologia? Non è così anche per Lei, nel campo della fisica?
Per gli scopi immediati che ci siamo proposti, da quanto precede ricaviamo la conclusione che non c’è speranza di poter sopprimere le inclinazioni aggressive degli uomini.
Si dice che in contrade felici della Terra, dove la natura offre a profusione tutto ciò di cui l’uomo ha bisogno, ci siano popoli la cui vita scorre nella mitezza, presso i quali la coercizione e l’aggressione sono sconosciute. Ci credo poco; mi piacerebbe saperne di più, su queste felici creature…
Partendo dalla nostra mitologica dottrina delle pulsioni, giungiamo facilmente a una formula per definire le vie indirette di lotta alla guerra. Se la propensione alla guerra è un prodotto della pulsione distruttiva, contro di essa è ovvio ricorrere all’antagonista di questa pulsione: l’Eros. Tutto ciò che fa sorgere legami emotivi tra gli uomini deve agire contro la guerra. Questi legami possono essere di due specie.
In primo luogo relazioni che, pur essendo prive di meta sessuale, assomiglino a quelle che si hanno con un oggetto d’amore. La psicoanalisi non ha bisogno di vergognarsi se qui si parla di amore, perché la religione dice la stessa cosa: Ama il prossimo tuo come te stesso. Ora, questa è un’esigenza facile da porre, ma difficile da realizzare.
L’altro tipo di legame emotivo è quello che si stabilisce mediante identificazione. Tutto ciò che provoca solidarietà significative tra gli uomini risveglia sentimenti comuni di questo genere, le identificazioni. Su di esse riposa in buona parte l’assetto della società umana..
Fa parte dell’innata e ineliminabile disuguaglianza tra gli uomini il fatto che essi si distinguano in capi e seguaci. I seguaci rappresentano la stragrande maggioranza, hanno bisogno di un’autorità che prenda decisioni per loro, alla quale per lo più si sottomettono incondizionatamente…
L’ideale sarebbe naturalmente una comunità umana che avesse assoggettato la sua vita pulsionale alla dittatura della ragione. nient’altro potrebbe produrre un’unione tra gli uomini altrettanto perfetta e tenace, capace di resistere perfino alla rinuncia di vicendevoli legami emotivi. Ma, con ogni probabilità, questa è una speranza utopistica..
Vorrei tuttavia trattare ancora un problema , che nel Suo scritto Lei non solleva e che m’interessa particolarmente. Perché ci indigniamo tanto contro la guerra, Lei e io e tanti altri, perché non la prendiamo come una delle molte penose calamità della vita? La guerra sembra conforme alla natura, pienamente giustificata biologicamente, e in pratica assai poco evitabile…
Da tempi immemorabili l’umanità è soggetta al processo dell’incivilimento (altri, lo so, chiamano più volentieri questo processo: civilizzazione). Dobbiamo a esso il meglio di ciò che siamo diventati e buona parte dei nostri mali. Le sue cause e origini sono oscure, il suo esito incerto, alcuni dei suoi caratteri facilmente penetrabili.
Forse esso porta all’estinzione del genere umano, giacché in più di un modo pregiudica la funzione sessuale, e già oggi le razze incolte e gli strati arretrati della popolazione si moltiplicano più rapidamente dei ceti sociali di elevata cultura.
Forse questo processo si può paragonare all’addomesticamento di certe specie animali; senza dubbio comporta modificazioni fisiche; tuttavia non ci si è ancora familiarizzati con l’idea che l’incivilimento sia un processo organico di tal specie.
Le modificazioni psichiche che intervengono con l’incivilimento sono invece vistose e assolutamente inequivoche. Esse consistono in uno spostamento progressivo delle mete pulsionali e in una restrizione dei moti pulsionali.
Sensazioni che per i nostri progenitori erano dense di piacere sono diventare per noi indifferenti, o addirittura intollerabili; esistono ragioni organiche del fatto che le nostre esigenze ideali, etiche ed estetiche, sono mutate. Di tutti i caratteri psicologici della civiltà , due sembrano i più importanti: il rafforzamento dell’intelletto, che comincia a dominare la vita pulsionale, e l’interiorizzazione dell’aggressività, con tutti i vantaggi e i pericoli che da ciò conseguono.
Orbene, poiché la guerra contraddice nel modo più stridente tutto l’atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo di incivilimento, dobbiamo necessariamente ribellarci contro di essa : semplicemente non la sopportiamo più.
Non si tratta soltanto di un rifiuto intellettuale e affettivo: per noi pacifisti si tratta di un’intolleranza costituzionale, e di un’idiosincrasia portata, per così dire, al massimo livello. E mi sembra in effetti che le degradazioni estetiche della guerra concorrano a determinare il nostro rifiuto in misura quasi pari alle sue atrocità.
Quanto dovremo aspettare perché anche gli altri diventino pacifisti? Non si può dirlo, ma forse non è utopistico sperare che l’influsso di due fattori ( un atteggiamento più civile e il giustificato timore degli effetti di una guerra futura) ponga fine alle guerre in un prossimo avvenire. Per quali vie dirette o traverse non possiamo indovinarlo. Nel frattempo possiamo dire una cosa: tutto ciò che favorisce l’incivilimento lavora anche contro la guerra.

venerdì 25 settembre 2009

Essere e spazio

Estrapolo un brano scritto da Sabiana Brugnolini nel libriccino scolastico già citato "Il paesaggio: coscienza e immagini":

Paesaggi come videogames

Nell'età contemporanea anche la pubblicità contribuisce a elaborare nuovi modelli di spazio. Grazie alla sua diffusione, essa provvede poi ad esportarli in ogni parte del mondo. Le immagini della pubblicità sono oggi parte integrante del pensiero comune.
Negli spot e nei messaggi pubblicitari più in voga si rivela una certa tendenza a proporre scenari fittizi e virtuali, nati dalla combinazione di elementi eterogenei. Essi sono il prodotto del cosiddetto "sovraccarico sensoriale" della Postmodernità. Il fenomeno deriva dal bombardamento continuo di immagini e notizie che ogni individuo riceve ogni giorno da ogni angolo della Terra. Qualsiasi paese, infatti, è raggiunto, filmato e "squadernato" dai mezzi di comunicazione e informazione di massa. di conseguenza, ogni luogo è diventato familiare e quasi visibile da qualunque altro luogo del pianeta.
Questa visione comune dello spazio non corrisponde però a una vera conoscenza. Essa coincide , invece, con la versione filtrata e spettacolarizzata che del mondo viene offerta dai media e dai mezzi di comunicazione più diffusi.
I paesaggi messi in scena dalla pubblicità corrispondono in pieno a questa concezione dello spazio contemporaneo, e contribuiscono a diffonderla maggiormente.
Si pensi, ad esempio, alla pubblicità messa in circolazione recentemente da una celebre casa automobilistica. In una metropoli moderna, presumibilmente americana, con larghe strade e grattacieli scintillanti, si vedono passeggiare animali selvatici provenienti da ogni regione della Terra. A un certo punto, fa irruzione l'automobile dello spot, mescolandosi, unica auto, al traffico dei numerosi animali.
Il civile, l'umano e l'ipermoderno convivono nel video con il selvaggio, il naturale e lo sperduto, in una sorta di paesaggio globale che comprende tutti i paesaggi che l'uomo ha costruito, nel tempo e nello spazio. Essi vengono destoricizzati e ricombinati come un videogame. Il risultato è un nuovo paesaggio virtuale, tecnologico e ludico, che ben incarna la visione postmoderna della realtà.//


La pubblicità a cui l'autrice fa riferimento è del 2004, non ricordo nemmeno quale sia e non importa. Non è cambiato molto, se non la maggiore consapevolezza di quest'omologante visione percettiva che fa soffrire moltissimi intorno a me. Qui, cioè, nel mondo grondante cemento e cavi elettrici, connesso di continuo virtualmente, e sempre più tormentato da come poter vivere l'affrancamento dalla tecnica, sognando una vita in campagna.
Consapevoli o meno che siano, gli Occidentali hanno da tempo conquistato selvaggiamente il selvaggio e si dice che a questa sete di conquista di spazi sia mancata una direzione "etica", che avrebbe forse potuto prevedere il dramma mostruoso del trovarsi vittime dello stesso prodotto inventato per difendersi dalle offese della natura.
Miti diversi popolano la testa di coloro che hanno accesso alla "cultura" e ciascuno dirà la sua sull'argomento.
Ho pensato, scritto e poetato-persino- sull'argomento diverse volte negli ultimi anni ed anche il nuovo ambizioso, barcollante progetto sulla periferia palermitana nasce da questo disagio.
Scriverò altre considerazioni, al momento mi va solo di condividere questo brano, di un etologo celebre vivente, Danilo Mainardi, del quale raccolgo in fondo alcune citazioni ed una breve sintesi della biografia.
Ora faccio un altro barbaro atto di "copiatura" della Brugnolini, che inserisce un brano di Mainardi con una presentazione.

Nel libro "La strategia dell'aquila", l'autore rinviene una serie di analogie tra i comportamenti umani e i comportamenti di alcune specie di uccelli. In origine, sostiene lo studioso, l'uomo era come l'aquila e adottava la strategia del grande rapace: conduceva una vita sobria e ben organizzata, prelevando dal territorio solo le risorse necessarie e vivendo in armonia con l'ambiente. Il progresso ha successivamente infranto l'antico rapporto di simbiosi.
La conseguenza di ciò è che il mondo in cui viviamo, da cui natura e paesaggio stanno gradatamente scomparendo. Gli uomini, nota infatti lo studioso, con amara ironia, si stanno già abituando a vivere senza aria, senza acqua, senza alberi, senza la compagnia degli animali.
Ciò vale anche per le rondini, grandi protagoniste in assenza del brano che segue. esse rischiano di diventare un ricordo per le generazioni a venire, che si annunciano provviste di ogni comfort, ma prive, ormai, della "natura vera".

Ed ecco le parole che rivolgo a tutti noi, triste e desolata generazione dei senza rondini:

"Si può vivere, non c'è dubbio, pure senza rondini. Sopravviveremo. ....
Ma che vita sarà una vita senza rondini? Be', forse anche questo è uno di quei problemi che, simpaticamente, col tempo si autorisolvono. Basta che scompaia quella generazione (la mia) che è nata quando ogni casa aveva le sue rondini e alla sera, d'estate, le piazze cittadine si adornavano di rondoni che lanciavano strida assordanti sfidandosi in precipitosi inseguimenti. Per poi lasciare, col sopravvivere del buio il posto ai pipistrelli (che stanno pure loro scomparendo).
L'importante, penso, è, un pò alla volta, riuscire ad abituarsi a vivere senza. Non so se l'avete notato, ma da qualche anno è cominciata a circolare della gente con una mascherina di garza bianca sulla faccia. Certi pedalano in bicicletta, altri passeggiano a piedi: fanno esercizio, si stanno abituando a vivere senza l'aria pura. E quanta è ormai la gente che beve l'acqua del rubinetto, per non parlare di quella delle fonti e dei pozzi?..

Pasolini, tanti anni fa, in uno dei suoi Scritti corsari, lamentò la scomparsa delle lucciole. Ebbene, alla loro carenza siamo pure sopravvissuti.
Vedrete che i nostri nipoti saranno bravissimi a vivere senza. E poi, d'altro canto, per ogni cosa o essere vivente che scomparirà avranno in cambio un oggetto, o un vivente, virtuale.
Così, oggi che ancora esistono, seppure un minor numero, le rondini... e i topini e quelle affascinanti pseudorondini che sono i rondoni, ci si può domandare: ma i nostri nipotini li conoscono? li hanno mai sentiti cantare? sanno distinguerli?
Qual è , mi chiedo, il loro mondo animale? Temo che in quelle giovani menti confusamente convivano il passato e il presente, il vero e il falso. Dinosauri, leoni, godzilla..Tutti, i veri e i falsi, i viventi e gli estinti, immaginati, omologati, patinati e colorati. Mai, comunque, incontrati se non su uno schermo. E loro , i nostri nipotini, saranno gli adulti di domani. La generazione dei senza rondini. La generazione che ha imparato a vivere senza, seppure con tanti oggetti virtuali in cambio."

Da La strategia dell'aquila di Danilo Mainardi, etologo nato nel 1933 a Milano.
Nel 1956 Mainardi si laurea a Parma in biologia. Dal 1967 fino al 1992 ha insegnato prima Zoologia, quindi Biologia generale e infine Etologia presso l'Università di Parma, nelle facoltà di Scienze e di Medicina. Dal 1973 è direttore della Scuola di etologia del centro Ettore Majorana di cultura scientifica di Erice. Attualmente è professore ordinario di ecologia comportamentale presso la Facoltà di Scienze Matematiche Fisiche Naturali dell'Università "Ca' Foscari" di Venezia.

È presidente onorario della LIPU (Lega italiana protezione uccelli), dopo esserne stato per molti anni presidente nazionale.

Si è occupato principalmente dell'evoluzione del comportamento sociale e sessuale. In particolare della scelta sessuale, dimostrando l'importanza dell'apprendimento precoce nel determinare le preferenze sessuali. Con i suoi studi sull'aggressività ha dimostrato che non esiste appetenza per questo comportamento. Tra i risultati più importanti della sua ricerca è sicuramente la scoperta che anche le specie animali posseggono in certa misura la capacità tipica dell'uomo di produrre e trasmettere cultura, di trasferire, cioè, da un individuo ad un altro, soluzioni di problemi e innovazioni.

Ha vinto il premio Glaxo per la divulgazione scientifica. Nel 2003 ha ricevuto a Milano il premio "Campione" per la categoria "Ambiente"

È stato direttore dell'Italian Journal of Zoology, organo dell'Unione Zoologica Italiana. Ha partecipato e partecipa tuttora a numerose trasmissioni televisive specialistiche, tra le quali Dalla parte degli animali, Almanacco del giorno dopo e le serie di Quark. Collabora con il Sole 24 Ore, il Corriere della Sera, con Casaviva e con Airone. È autore di oltre 200 pubblicazioni. È, inoltre, presidente onorario dell'Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti.

Queste sono le citazioni, tratte da wikipedia, come la biografia sopra:

* Quando capiremo, a fatti e non a parole, che le scelte esercitate contro gli animali sono anche scelte contro di noi? (citato in Franca Zambonini, In aiuto ai nostri "fratelli minori", Famiglia Cristiana, n. 40, 6 ottobre 2002)
* Una società globalizzata si governa meglio se è fatta di persone con poco senso critico, quindi irrazionali. (dall'intervista di Piero Bianucci, Mainardi. La zanzara sulle ali del jumbo, La Stampa, 28 luglio 2001)

* Come è facile per la femmina del cane tirar su bene la sua prole, com'è difficile per noi umani fare altrettanto. (da Del cane, del gatto e di altri animali, Mondadori)
* Agli scienziati piace sempre moltissimo inventare nuove teorie, nuove spiegazioni e, soprattutto, nuovi nomi possibilmente astrusi. È così, oltretutto (ma questa senza dubbio è una malignità), che si raggiunge la gloria. Se non altro una bella visibilità. (da La bella zoologia, Cairo, Milano, 2008)

* A determinare la comparsa, lo sviluppo e il permanere dell'umana capacità di credere è stato un peculiare assommarsi di caratteristiche mentali e sociali.
* Credo davvero sia giunto il tempo di percepire la nuova centralità della cultura naturalistica. Una centralità necessaria per conoscerci meglio e, di conseguenza, per calibrare più positivamente il nostro rapporto con la natura, con i nostri simili, con noi stessi.
* Generalizzando, il comportamento è sempre il risultato dell'interazione tra genetica e ambiente. In definitiva, è sempre, per usare un termine proprio della biologia, fenotipo, anche se l'apporto dell'informazione genetica può essere assai variabile sia qualitativamente sia quantitativamente.
* Gli scienziati dovrebbero avere il culto della ragione; eppure, di norma trincerandosi dietro l'accusata argomentazione delle aree di competenza, trovano anche loro uno spazio per credere.
* L'uomo è, tra gli animali, il più razionale. Eppure anche in quest'epoca dominata dalla scienza, o almeno dove la scienza ha prodotto straordinari avanzamenti conoscitivi, l'uomo continua a credere in una varietà di fenomeni, esseri o entità di non provata esistenza.

[Danilo Mainardi, L'animale irrazionale. L'uomo, la natura e i limiti della ragione, Mondadori, Milano 2002]

Ed infine, come debole incoraggiamento:
"Una società globalizzata si governa meglio se è fatta di persone con poco senso critico, quindi irrazionali."

"L'ecologia ci insegna che la nostra patria è il mondo."

Buone riflessioni agli ipotetici lettori.

lunedì 21 settembre 2009

Mark Strand (il futuro non è più quello di una volta)

Mark Strand (il futuro non è più quello di una volta)

1) Se un uomo capisce una poesia,
avrà dei problemi.

2) Se un uomo vive insieme ad una poesia,
morirà solo.

3) Se un uomo vive insieme a due poesie,
ne tradirà una.

4) Se un uomo concepisce una poesia,
avrà un figlio in meno.

5) Se un uomo concepisce due poesie,
avrà due figli in meno.

12) Se un uomo si vanta delle sue poesie,
verrà amato dagli stolti.

18 ) Se un uomo lascia che le sue poesie vadano in giro nude,
avrà paura della morte.

19) Se un uomo ha paura della morte,
verrà salvato dalle sue poesie.

20) Se un uomo non ha paura della morte,
le sue poesie forse lo salveranno forse no.

21) Se un uomo finisce una poesia,
si immergerà nella scia bianca della propria passione
e verrà baciato dalla pagina bianca.

martedì 15 settembre 2009

I dubbi sull’importanza effettiva di costruire un impianto teorico.

Buongiorno, mie care periferie.
Approfitto di una pausa per scrivervi, sperando di essere letta.

Parto dal principio che l’unica costante della vita sia l’imprevedibilità.
Quanto è importante che un PROGETTO abbia una salda struttura teorica, se poi, di fatto, vince l’assenza di controllo ed anticipazione, quella serendipità che- talvolta- fa scoprir cose più belle di quelle pensate o rivela- disgraziatamente il più delle volte- l’assoluta infondatezza della scelta di rivolgersi a ciò che si voleva osservare più da vicino?

Questa seconda possibilità, direi brevemente che si realizza:

1)Perché ci sono cose più importanti di cui occuparsi prima;
2) Perché ciò che si vuole ricercare non è un “oggetto” che vuol prestarsi all’essere studiato;
3) O, ancora, trattandosi di un gruppo, perché non c’è la stessa intensa voglia di portare avanti la ricerca nella mente dei membri dell’equipe.

Questo progetto si presta a tutte e tre le “malvagie” imprevedibilità.
Ciò confesso che non mi faccia affatto paura. Mi piacerebbe portarlo comunque avanti, conscia dei limiti e delle difficoltà cui va incontro.
Ripeto ancora come non possa e non debba vendervi nulla. Lo spirito che mi ha guidato finora è stato solo quello di proporvi un viaggio nella conoscenza di qualcosa che non è affatto detto che vi interessi, ed il fatto che invece a me interessa molto conoscere non c’è alcuna ragione per cui dovrebbe incuriosirvi.
Ho già abusato di toni intimistici, raccontandovi come, mentre continuo la lotta al riconoscimento dei miei limiti, sia diventata sempre più bisognosa di capire qual è il mio effettivo “potere”.
E come in questo non abbia alcun dubbio che debba rientrare quello “politico”, in una realtà smisuratamente difficile da incidere com’è la nostra, penso di averlo anche non troppo implicitamente già rivelato.
L’interesse, insomma, non può supplicarsi in alcun modo. E l’ombra dell’esperimento di Platone di cercare di concretizzare la sua utopia, fallendo e disincantandosi al punto da esortare a non tentarla nemmeno, è per me, che sono cresciuta con la Lettera Settima, un’ospite perpetua del mio essere.

Detto ciò, se il lavoro di reclutamento iniziato in queste settimane sembrerà svolgersi da parte mia con molta disponibilità ed apertura, annuncio come dovrò correggermi a breve, quando inizierò sul serio a stabilire CHI voglio con me.
Ovviamente non è una minaccia, ma devo essere chiara e sincera fino in fondo.
Quanto all’ultima riserva, ossia la possibile non volontà del gruppo a partecipare, quindi il succo è il seguente.

Gli inviti sono stati fatti spesso casualmente, solo per concedere una visione molto rapida del percorso prospettato, ma chi desidera davvero cominciare un’indagine di questo tipo ha bisogno di fare i conti con se stesso, lontano dalle mie pressioni, richieste e via dicendo, perché senta di non essere costretto in alcuna maniera a fare ciò che non vuol fare.

La prima delle “imprevedibili” cause d’arresto di un progetto simile, ossia la non disponibilità delle “periferie” a lasciarsi scrutare da giovani concittadini che non distribuiscono loro né denaro né offerte di lavoro, può essere arginata forse nella stessa maniera. Proprio perché sono diversi i componenti di un quartiere, diverse saranno le reazioni che potremmo riscontrare al nostro misterioso “interesse” rivolto a “loro”.
Posso immaginare fin d’ora che molti non gradiranno, altri resteranno perplessi, alcuni, però, magari ci stupiranno, lasciandosi coinvolgere, chi può dirlo…

Quanto alla necessità che questo lavoro abbia luce non so che dire.
Ci saranno tante altre cose più urgenti, probabilmente, da osservare.
Ma cercare di capire cosa è il bello, se esiste un bello da conoscere e tentare di difendere o promuovere a Palermo, perché possa avere delle ripercussioni fondamentali nella vita non solo di chi facilmente può accostarsi ad esso, ma anche di frange spesso inascoltate… Se davvero siamo noi i suoi portavoce e se una presunta estetizzazione della nostra vita possa renderci soddisfatti… beh, sono solo alcune delle tante vetrine smerigliate che sbattono nell’edilizia degradatissima del mio cervello e che ho ipotizzato come possibile linea di ricerca, perché capace di tirarne in ballo tante altre, forse anche più importanti.

Ecco, se volete partecipare, una volta espressa la “preferenza” sulla tipologia di periferia da indagare, vorrei tanto che cominciaste- senza alcuna fretta e secondo le modalità che vi mettono più a vostro agio- con il raccontare cosa sia per voi la bellezza.
E così, forse, intanto i miei “interni “ scricchioleranno di meno. E, soprattutto, inizieremo a vagliare la fondatezza o meno della “teoria” da anteporre ad un’analisi che vorrebbe porsi al di là della teoria stessa , per potersi trasformare in conoscenza (ovviamente mai definitiva).
Aspetto vostre notizie.
A breve vi informerò sulla data ed il luogo del prossimo incontro, presumibilmente alla fine della settimana prossima.
Buona giornata!

lunedì 14 settembre 2009

Il post di Danilo

Lo pubblico qui perché non è riuscito ad inserirlo nella bacheca del "gruppo fb".
(Attendo con ansia il sito, per non disseminarci e "periferizzarci" troppo...).
Ecco qui cosa ci scrive l'architetto:

PERIFERIE(A)

Dalle discussioni emerse nel nostro primo incontro son venuti fuori degli spunti interessanti.
Credo sia essenziale, per la migliore comprensione della “periferia” in quanto luogo dell’abitare contemporaneo, l’organizzazione di una o più visite all’interno di questi colossi immaginati nonostante i pessimi risultati, per accogliere un fiume di umanità.
Già, perché se è vero che la periferia possiede connotazioni identiche in tutto il pianeta( degrado sociale e urbano, solitudine, disagio giovanile, alienazione dal contesto urbano, isolamento, chiusura…), probabilmente a causa della visione ristretta ereditata dalla pedante cultura Ottocentesca, è altresì vero che ogni periferia possiede necessariamente una specificità di carattere storico-sociale, urbano-topografica che la identifica rendendola unica e perciò analizzabile come fenomeno unitario.
Come già ricordato ieri sera, credo fermamente che nel caso della nostra città,
il ruolo predominante in questo gioco perverso che ha ridotto la totalità del territorio dalle pendici della Conca d’oro alle coste ad una scacchiera abitativa per lo più sovradimensionata e priva di servizi, sia da accreditare al connubio tra mafia e politica ed alla totale assenza dello Stato sovrano per oltre mezzo secolo.
La Palermo dei nostri nonni, quella degli anni Cinquanta, era la capitale del Liberty della scuola di Ernesto Basile, la Conca d’oro era una distesa di terreni agricoli in cui non era difficile perdersi tra i profumi degli agrumeti e del gelsomino, un complesso ed organico sistema di Ville e pertinenze, insisteva all’interno di questo mare verde intessendo con le borgate(Uditore, Cruillas, San Lorenzo, Sferracavallo, Pallavicino, Partanna, Malaspina, Crocerossa, Noce,Portello, Acquasanta, Arenella, Acqua dei corsari, Oreto, Guadagna, Ciaculli, etc…) un legame vitale il cui vettore ultimo era cuore commerciale del Centro storico.
Un’economia identitaria quella lì.
Fatta di prodotti della terra e del mare, ma di questa terra e di questo mare.
Credo che sia ancora l’economia l’attore principale delle sorti delle nostre città, del nostro modo di abitare, il danaro, quello facile, quello d’affare. La fame dei viddani provenienti da Corleone, alimentata dall’interesse oligarchico della dirigenza della democrazia Cristiana Siciliana e probabilmente del “Divo”, ci consegna oggi una realtà urbana in cui diviene improprio parlare di Periferie ma piuttosto di Periferi”A”.
Un magma saturato di abitazioni-dormitorio scarne di servizi e nonostante la vastità del territorio in questione, ancora monocentrico, la cui identità è fortemente ancorata al ricordo della dimensione abitativa dei luoghi carichi di storia del centro storico.
Una periferia dunque non come le altre malgrado le assonanze ma carica di “sensi” che a noi tocca di saper mostrare, segni, tracce di un passato negato, spesso celato dai mostri di cemento armato della speculazione edilizia palermitana, luoghi questi divenuti specchio della società che li ha generati e desiderosi di riscatto sociale.
Un’ultima considerazione prima di chiudere vorrei spenderla a favore dell’indagine di carattere estetico immaginata da Silvia come portatrice di energie positive.
Sono convinto da architetto che l’estetica tanto sottovalutata dalla nostra cultura recente, dall’arte contemporanea al modo di configurare le nostre parti di città nuova, sia la chiave attraverso la quale generare adesione, perché come amava ricordare Carlo Scarpa:” …se una cosa è bella, chi la osserva la sente…”
I luoghi della nostra quotidianità hanno infatti sul nostro benessere percettivo un’influenza enorme in termini di vissuto eppure sento che non sono configurarti come dovrebbero per accoglierci.
Concludo ricordando una considerazione fatta da Bruno Zevi qualche tempo fa, quando ci ricordava che se al cinema trasmettono un brutto film, possiamo non andarlo a vedere, se l’editoria produce cattivi libri a noi è dato di leggere altro, ma se qualcuno costruisce frammenti di città pessimi o deturpa irreversibilmente il paesaggio dei nostri luoghi, siamo costretti a pagarne tutti le conseguenze e non possiamo chiudere gli occhi per non guardare.
A presto, al prossimo incontro,
Danilo 7-09-09

lunedì 31 agosto 2009

Progetto periferie...Cosa?

Spiegate le ragioni, andiamo all'oggetto.
Le periferie... Termine ambiguo. L'etimologia è greca, Peri-fherein, ossia "portare intorno". La periferia è la circonferenza, insomma.

Spero che la discussione di stasera arrivi ad una certezza almeno riguardo quali siano le "nostre" periferie.
Proprio perché ho il sospetto che non esista una vera e propria periferia palermitana, a parte quelle "naturali" del mare e delle montagne che chiudono Palermo in una conca, al momento per me è importante studiarle a seconda della loro tipologia per mostrare similitudini e differenze tra le stesse e tra queste e quello che normalmente non viene considerato "degradato", "zona a rischio" e via dicendo.
Ho scelto allora quattro differenti tipologie:

TIPOLOGIA UNO
Borgata, ossia qualcosa che non è "sulla circonferenza", ma resta come un'enclave, con un proprio codice linguistico, comportamentale e di potere, che non si capisce quanta connessione abbia effettivamente con ciò che lo circonda.
Le borgate da indagare sarebbero BORGO VECCHIO e ZISA.

TIPOLOGIA DUE
Il confine sul mare. Ho da sempre creduto ingiusto che il mare non sia sufficientemente esaltato a Palermo, a differenza di quanto accade in altre città della stessa Sicilia. Ne parleremo in abbondanza, intanto annuncio su quali "zone" mi piacerebbe a questo proposito lavorassimo:
ARENELLA e S.ERASMO (?)
TIPOLOGIA TRE
La periferia vera e propria, laddove c'era campagna. Sarebbe allora interessante studiare meglio il rapporto con la natura. Quanto la terra è stata usata come risorsa effettiva? Questo è un argomento molto inquietante, quello che più mi sta a cuore forse in assoluto, e che tira in ballo discussioni sul senso del progresso, sollevando riflessioni sullo scempio del paesaggio e la necessaria difesa dell’ambiente che per vivere- sopravvivere- nel postmoderno dovrebbe riguardarci tutti.
Sono tematiche sentite dagli abitanti di queste zone? Hanno problemi ben più grandi da risolvere, immagino..
Le periferie da studiare, molto diverse tra loro, potrebbero essere: BORGO NUOVO E BRANCACCIO

TIPOLOGIA QUATTRO
Il ghetto.
ZEN
Si sa, lo Zen è un capitolo a parte. Ne parlerò dopo esserci entrata almeno una volta.


Le tre linee tematiche scelte, "bellezza, immaginazione, necessità", "le radici delle solitudini", "identità e potere", applicate a queste zone, credo porterebbero portarci rispettivamente ad indagarle con in mente i seguenti obiettivi:

1) Alla luce anche dello studio delle periferie di altre città, cogliere la specificità di quella palermitana.
2) Quanto interesse viene mostrato per queste zone dai politici? Quanto da coloro che non abitano lì, i "non periferici"? Se esiste un'indifferenza alla riabilitazione di queste zone, qual è la sua causa? I rappresentanti delle circoscrizioni possono e non agiscono, non possono e non agiscono, possono ed agiscono?
3) Le connessioni di questi luoghi con la mafia. L'appartenenza.

Come si può uscire da questo circolo? Come si può immaginare che queste persone possano creare una nuova identità e rivendicare i loro diritti?
La bellezza naturale, che si chiama campagna e mare, ed "immaginata" dall'uomo, ossia l'arte, è costretta dalla necessità ad arretrare. La necessità spegne la voglia di bello. Senza avventurarmi in complesse analisi filosofiche, ricordo una frase di Mauriel Barbery, autrice dell'"eleganza del riccio": "Ai ricchi il dovere del bello. Altrimenti meritano di morire.".
E chi ricco non è?

Devo pensare che si debba accettare l'esistente e tollerarlo nelle sue ingiustizie, imparando a fare solo il proprio, ignorando ciò che intorno accade? Questo se pensassi che non ci sia nessun rimedio, ma io credo che nulla sia più difficile del cambiamento, ma nulla è più sciocco di crederlo impossibile.

Sono irredimibili? No.
Se la bellezza spinge a riconoscersi in un centro comune, alternativo rispetto a quello del potere locale mafioso, può essere concepita come risorsa indispensabile o è un'illusione senza alcun fondamento?

Dico bellezza in un modo enigmatico, perché per me è il mistero più grande di tutti.
Il degrado è l'assenza di bellezza. Noi mi piacerebbe che studiassimo gli effetti del luogo sulla persona per avere sempre più chiara consapevolezza delle influenze dello spazio sul proprio modo d'essere. E i residenti in queste zone? Ne sono consapevoli o no? Votano qualcuno che garantisce loro l'accesso alla bellezza o no? Alcuni si, altri no, forse. Esiste insomma un problema "periferia"- da intendersi nel senso di "degrado", brevemente spiegato sopra- per chi governa? O non può esistere perché chi dovrebbe decidere è già periferia, perché subordinato ad un altro potere più grande?
Chi è il capo?

Progetto periferie...Chi?

Ancora in fieri.
Non è ancora certo CHI parteciperà e questo non può dipendere ovviamente da me, che, pur potendo, qualora fossi più riposata di adesso, tentare la strada della persuasione a tutti i costi, non intendo costringere nessuno ad aderire ad un progetto, che mi rendo conto appaia fin da subito pretenzioso, un colosso dai piedi d'argilla.
Bene, pur avendo lo stesso nome, non miro al consenso come Silvio, giuro, eppure ormai vi è chiaro quanto ceda spesso ad una retorica fastidiosa..arginatemi essendo schietti fino in fondo, vi chiedo fondamentalmente questo.

Intanto ricordo come ogni "elemento" del gruppo- dei gruppi- avrà la possibilità di esprimersi liberamente, perché il mio compito principale è quello d'impegnarmi a tutelare, mantenendo ferme le linee d'indagine, l'originalità di ciascuno, perché nessuno debba piegarsi all'idea di far parte di un gruppo come fosse di pecore e non persone.

Ma chi partecipa? E perchè è stato "scelto"?
Interesse e sensibilità, in primis, e una competenza specifica da mettere in circolo perchè questo progetto gradualmente prenda forma, fino ad avere un'anima sua...

Ricordo le " categorie"immaginate, riconfigurate adesso nella seguente maniera:
1)Architetti
2)Filosofi
3)Giuristi sensibili
4)Psicologi
5)Artisti
6)Documentaristi
7)Gruppo misto 1 (Storici, sociologi, antropologi)
8)Gruppo misto 2- esterni e mediatori-: Giornalisti, economisti ed altri membri non fissi nei gruppi, più l'Università e coloro che potremmo invitare più avanti per arricchire le nostre prospettive sulle zone studiate.

Di ogni singola categoria, dovrei adesso tentare di delineare gli obiettivi che potrebbero porsi? No, gradirei che foste voi a pensare con me come potreste effettivamente mettervi a disposizione.
Non ci insegue nessuno ed io ho più volte ribadito quanto, sebbene nevrotica rimanga, ho bisogno di sentirmi coordinatrice ma non tiranna.
Per questo motivo, rientrata da Berlino il 13, spero di incontrarmi con ciascuna delle "categorie" reclutate, eleggendo, almeno per le prime sei categorie, un "capocategoria" che divenga punto di riferimento, a sua volta non "dittatore", dei lavori "specifici".

La divisione dei compiti è essenziale perchè questo progetto possa procedere.
Non voglio lavarmene le mani, ci mancherebbe, ma lavoreremo tutti meglio, stupido ricordarlo, se i criteri guida non saranno idiotamente concepiti.

Nelle seguenti settimane verranno formati i "gruppi" compositi e saranno assegnate le "zone periferiche", o per sorteggio o seguendo i desideri di alcuni che potrebbero già aver lavorato su alcune zone, viverci o preferirle per altre ragioni.

Detto questo, ne parliamo più tardi e nel futuro prossimo...Bye

Progetto periferie...Come? Una gravidanza!

Sull'importanza della distinzione tra "metodo" ed atteggiamento già ho scritto altrove. C'è poi da chiedersi se il modo possa essere più fluido se sostenuto economicamente.
Soldi ce ne sono? Ne parleremo più tardi.

Ho stravolto rispetto a quanto detto la struttura ed ora ve la illustro, anche per chiarirmi un pò le (troppe) idee.
Tanto per cominciare, posso dire che questo progetto avrà la durata di 9 mesi.
Stabiliti i gruppi, a seconda della vostra disponibilità, potremmo iniziare ad ottobre.
Se l'idea iniziale era che ciascun gruppo avrebbe potuto indagare ogni zona, variando ogni mese la sua periferia fino ad eleggere quella del suo cuore- scherzo-, mi sembra molto meno superficiale e più semplice al tempo stesso assegnare ad ogni gruppo una "periferia".
Altro cambiamento.
Come sapete, il documentario vorrei illustrasse anche i nostri incontri, i momenti, cioè, durante i quali i magnifici sette gruppi si confronteranno, parlando di ciò che hanno visto, sentito, ripreso, fotografato, pensato ed immaginato della loro "periferia".
Ora, anziché vederci ogni mese per le riprese delle discussioni, direi di organizzare tre grandi momenti, intitolando ciascuno alle famose tre linee tematiche che chiarirò meglio qui. Scandiamo quindi in tre tranche la ricerca, in senso cronologico solamente di "raduni" per fare il punto della situazione, non di modalità d'indagine, mi spiego? No? Dobbiamo parlarne e vi chiarirò.

La prima riguarderà "bellezza, immaginazione, necessità".
Come me l'immagino? Nei primi tre mesi parleremo di queste tematiche, vedendoci quanto più spesso possibile, ma utilizzando anche il sito internet che avremo a breve a disposizione. Perchè non siano discorsi del tutto non scientifici, è obbligatorio un confronto con le bibliografie esistenti ( penso agli studi già fatti in altre città sulla riqualificazione delle periferie, sul senso della periferia e se ne esiste davvero uno, per esempio).
E parlerei con le persone che vivono là per coinvolgere quanto più possibile, per capire cosa ne pensano della bellezza e se ne percepiscono con disagio l'assenza..vorrei si potesse chiarire come sentono il loro luogo, attraverso una serie di riferimenti al ruolo dell'arte nel mondo. Intervistare i politici, sarebbe meglio insieme agli abitanti stessi, che si occupano di quelle zone, gli amministratori che malamente amministrano.
Sarà la fase di preparazione, in cui prendere confidenza con la propria zona.


E sarà la fase in cui potranno essere immagino subito stimolati gli architetti, prospettando novità o progetti di recupero.
I filosofi già li immagino discettare sul ruolo della bellezza e su Marx, il capitalismo, il nichilismo, Heidegger e via dicendo..
Se la bellezza ha un potere salvifico, salva solo una piccola élite? Potrebbe salvare il mondo o oggi non c'è più rimedio, per borghesi e periferici, perché la tecnica ci ha totalmente dominato?
Questa è la premessa teorica da cui vorrei partissimo per seguirne gli sviluppi, giungendo a possibili risposte, che non chiuderanno naturalmente l'indagine, ma potrebbero segnare un passo in avanti nel fitto terreno della conoscenza.

L'altra novità, prospettata già con Danilo qualche sera fa, è l'idea del workshop.
E credo che proprio in riferimento a questa prima linea tematica, sarebbe interessante venisse realizzato, magari nella casa a Mondello, non mia, ma della "famiglia":)


Vorrei che fosse un modo per intendere meglio, a prescindere dalla realtà palermitana, il rapporto tra uomo e paesaggio e la possibilità del primo di incidere sul secondo rispettandolo o aggredendolo.





La seconda tranche riguarda "le radici delle solitudini".

Ci racconteremo anche noi. Il senso della ricerca durante le discussioni forse diventerà: esistono davvero le periferie? Se il riflesso dello spazio sull'uomo è condizionante, non siamo tutti "livellati", "inghiottiti" dalla tecnica?
Cosa sta accadendo oggi, almeno secondo la mia percezione, se, laddove esiste, la bellezza dei luoghi viene di continuo violentata?
La natura ci può salvare? E come vedono la natura coloro che immaginiamo "delinquenti" e deviati?
In periferia come nei quartieri degradati i sogni si assomigliano o no? Non crediamo tutti nell’amore? Non siamo tutti accomunati dall’impossibilità di interagire con un mondo che ci illude possa essere dominato per la maggiore informazione che ne abbiamo ma che non ci può garantire nessun’azione, nessuna politica di intervento, giacchè la classe politica decide molto poco?
Chi sono davvero gli invisibili?

Quando ci confronteremo su questo argomento, sarà soprattutto la volta degli psicologi, sociologi, antropologi eccetera, che forniranno dati, mediante cui spiegarci in quale modo può essere seguito un caso. Osserveremo i comportamenti di immigrati e non, cercheremo di intuire ciò che non si può ben spiegare..ci appoggeremo alle scuole e ai centri sociali operanti in ogni singola zona periferica, guardando agli studi già fatti.

Ci vediamo e parliamo a casa mia a Mondello, se volete, senza workshop, mentre gli architetti continuano a lavorare su quello che hanno presentato tre mesi prima.

I filosofi possono parlare di chi è l'altro, del postmoderno, del modo in cui è concepita la ricerca del bene oggi rispetto a tanti anni fa e rispetto ai Greci, magari. Ma è tutto da concordare.

L'ultima tranche sarebbe "Identità e potere".

Questa è la fase più delicata, perchè, dopo aver raggiunto una consapevolezza maggiore del problema ed una capacità d'interagire tra di noi e con loro si spera adeguata, sarebbe bello sforzarsi di coinvolgere alcuni abitanti nel prendere coscienza attraverso l'arte della risorsa che possono rappresentare, della resistenza che devono mostrare a chi vuole solamente usarli per aumentare un potere che non va a loro nutrimento.
Dove vivi, Silvia? Non lo capisci che il problema è proprio qui? Il potere è quello mafioso. Sono famiglie appattate con il potere politico. Lo Stato non esiste perchè è l'amministrazione stessa ad essere collusa..Oibò, ma che dite?
Bene.
Ma lo sapremo in un modo che non ci potrebbe restituire nessuna lettura, credo.
Quindi..anche se non cambieremo la città, cambieremo noi stessi in modo radicale, direi. E credo che questo già possa bastare.

Durante la settimana di workshop svolta da ogni gruppo nella periferia di pertinenza, saranno coinvolti tutti, artisti in primis, avanzando proposte di recupero, integrazione e via dicendo, che sappiano mostrare come la formazione dell'identità avviene solo se ci sa riconoscere parte della comunità e nel caso della situazione palermitana questa è abbandonata a logiche che, anche se è poco e nulla, in fondo noi mostreremo di disprezzare, restando dubbiosi ma tenaci nel credere che da tante miserie ingiuste questa città possa lentamente riscattarsi.

(I filosofi possono parlare di "riconoscimento", tema trattato benissimo dal nostro ateneo palermitano.).

Penso che, lavorando poi l'estate bene, per quanto riguarda pubblicità, fondi e via dicendo, potremmo a settembre 2010 esporre i nostri lavori e il nostro documentario, lasciando filmati integrali di ogni zona coinvolta alla zona stessa, come simbolo da cui ricominciare a credersi viva perchè bella, bella perchè viva..

Mmm...già è stato un parto scrivere queste cose, ne parliamo più tardi.

Progetto periferie...Perchè?

Perché questo progetto? Quale scopo si propone, quale obiettivo?
Potrei dire che il primo è quello di denunciare ciò che accade in alcuni quartieri periferici, invisibili ai più. Ma più che altro vorrei che riuscissimo a mostrare, da filosofa direi "lasciar essere", ciò che è sotto questo cielo palermitano, grazie al contributo di coloro che si adopereranno a render degno di voce chi e cosa forse rischia di essere totalmente dimenticato.

Sto cercando di lottare contro molte mie illusioni di nuovo e scoprirò probabilmente quest'anno con più convinzione come la sola mancata illusione devo essere io. Esserci pienamente, costi quel che costi.
Riuscire a capire fino in fondo gli influssi della città credo sia molto importante. Tempo, spazio, persone incontrate... Quante particelle lavorano, attentando al bello o sprigionandolo, per ciascuno di noi.

In questo lavoro abbiamo l'occasione di sentirci familiari e trasferire lontano il senso d'impotenza, perché circoscrivere un luogo su cui operare le nostre indagini e confrontare le nostre idee, senza che sia previsto un dialogo con un potere sordo ed indifferente a restituirci il consenso che conta perché acquisti visibilità ciò che si è "prodotto", credo sia il fattore fondamentale, capace di fare la differenza, di questo progetto.
Insieme, come una piccola cittadina, possiamo sforzarci di "guadagnare", in termini di conoscenza, la grande città (forse un grande "paese") che ci ospita tutti.
Ci farà certamente male. Ma la fatica è una risorsa. Chi risparmia non ottiene niente di nuovo, è banale dirlo. Dal sudore, dalla pazienza, dalla tenacia nascono tutte le cose belle, i pensieri più impetuosi, le storie d'amicizia e d'amore più forti, no?
Mi hanno detto i miei, tornati da un viaggio a Genova, che in via del Campo c'è scritto: "dal letame non nasce niente". Anche lì, dov'è nato e ha composto uno dei più grandi poeti del secolo scorso (lo era per Fernanda Pivano, l'ho sempre pensato anch'io) come Fabrizio, che ha centrato proprio sui dimenticati la maggior parte della sua musica, ebbene, anche lì forse non ci crede più nessuno.
La risalita, la ripresa, la capacità di sfidare queste oscure leggi ingannevoli che lasciano credere che solo il portafoglio abbia "valore", non vuole coltivarla davvero più nessuno come possibilità?
Sì. Esistono piccole forme di resistenza che di continuo vengono prospettate e vissute da moltissimi uomini e donne del nostro tempo, che cancellano la passività e realizzano le loro aspirazioni in campi diversi, mettendosi totalmente in gioco.
Questo progetto sulle periferie palermitane non è che una tra le tante possibili strade di resistenza, che vuole credere nel cambiamento, prendendo sul serio fino in fondo tutto ciò che lo ha reso impossibile finora , comprendendo in differenti maniere, secondo molteplici punti di vista, quante modalità denigratrici dell'uomo e del suo principio speranza, direi, hanno agito sulla realtà palermitana negli ultimi decenni.
Scegliere le periferie, infatti, ovviamente più recenti, è anche un modo per delimitare il tempo storico che c'interesserà scrutare, senza necessariamente dover andare ad indagare l'origine, perduta nella storia, del "fenomeno mafia", ad esempio.
Ma quali sono davvero le ragioni nascoste in quest'iniziativa? Cosa mi ha spinto ad agosto a bofonchiare vaghe idee sulla possibilità di coltivare insieme un "sogno"?
Negli ultimi mesi, molti di coloro che mi conoscono bene da tanti anni, pur abituati alle mie crisi cicliche, credo che mi abbiano riconosciuto a stento.
Si cambia sempre, ma io stavo andando indietro. Ho distrutto me stessa ancora una volta e mi appresto a ricostruirmi di nuovo. Dopo intense fasi di messa in discussione dei miei inganni, mi ero quasi arresa a convivere con essi, trascuravo i miei doveri e scrivevo e pensavo troppo in solitudine, angosciata da miliardi di motivi.
Questo bisogno di riscatto personale è sicuramente alla base del progetto, che sempre nasce, non so se siete d'accordo, da un pò di confusione, ansia, necessità di lasciarsi il negativo alle spalle, ipotizzando possibili alternative che incoraggino a guerreggiare con determinazione con la sofferenza.
Ma sarebbe molto meschino aver pensato di rompervi le scatole per "salvarmi", quasi dovessi crearmi un passatempo che per attuarsi non tenga conto degli affanni delle altre vite.
Ci sono altre ragioni, dunque.

Come sia nata quest'idea è, in realtà, molto più semplice raccontarlo.
Stavo leggendo un libriccino intitolato"Paesaggio e coscienza", uno di quelli che si usano come sostegno per le tesine del liceo, sgraffignato a mia madre, insegnante d'italiano e storia.
Mi ha sempre molto affascinato cercare di chiarire le influenze dello spazio sull'uomo e di questo su quello.
Ma perché proprio le periferie? Non potevo propormi di setacciare viale Lazio e indovinare quanto avesse potuto rendermi ciò che sono, anziché venire ad inquietare voi sulle periferie palermitane?
Indagherò sul mio quartiere, anche perché come queste periferie si inserisce in ciò che l'architettura palermitana lascia in consegna alla storia del Novecento.
Domenico mi spiegava l'altra sera come davvero Palermo non abbia un centro. Siamo tutti periferici o forse tutti centrali, chi lo sa.
Ma è certamente nelle zone al limite che l'edilizia mostra quanto le ragioni industriali abbiano vinto su altre, più profonde, che volevano assicurare abitabilità senza ignorare il legame viscerale dell'uomo con la terra. O forse non è così, ed il "naturale" è rispettato, ma io lo ignoro? E perchè, nel centro storico la situazione è in ogni caso differente?
Ho moltissime domande, che ovviamente non riguardano esclusivamente i luoghi, ma gli abitanti delle zone scelte (ma che forse saranno cambiate...urge inserire l'Arenella), con i quali vorrei tentare un dialogo per cogliere differenze e similitudini, forse arrivando dopo tutto a pensare che la "periferia" è solamente uno stato d'animo, quella marginalizzazione di chi resta lontano dal centro per noia, disincanto o chissà quale altro motivo, fino a non vedere più la causa delle decisioni e trovandosi a subirle anche se ingiuste, forse proprio perché incurante del ruolo di sorvegliante che spetta a chiunque.

Una ragione, anzi un paio, sono di natura "filosofica".
Annoierei di certo dilungandomi a spiegare a cosa mi riferisco, ma mi limito a citare la "fenomenologia del rifiuto", la speranza che un "bene comune" possa ancora esistere, il ruolo non solamente estetico della bellezza (avevo focalizzato specie su questo inizialmente l'idea..forse alcuni di voi ricorderanno che avevo battezzato il progetto "meraviglia e rifiuto"...) e l'indagine inesaurita ed inesauribile sul come si afferma l'identità di un singolo, come quella di un gruppo, senza arrivare ad annientare il bisogno di sentirsi parte di una comunità.

E certamente c'è del "politico", come ho già scritto su facebook e trovate sul blog di Giovanni. Faccio un piccolo copia e incolla anche qui, su.
"Questo sarà un lavoro intrinsecamente ed estrinsecamente politico, sappiatelo.Ognuno di noi ha idee differenti e non ci sarà nessuna tessera a condizionarci. Ma politico , per come limitatamente può essere forse pensato oggi questo aggettivo, è forse soprattutto ciò che non si rivolge più alla propria esistenza per cercare possibili risposte, perché sente il bisogno di anteporre il sentirsi parte di una comunità alle deboli percezioni dell’individuo. E pretende un confronto con quella non solo per capire meglio la propria identità- che può forse dirsi semplicemente un effetto di quell’apertura- ma per comprendere un po’ meglio il proprio tempo, osservandolo, denunciandolo, andando al di là della denuncia stessa, perché ci si sente comunque suoi protagonisti.Ciò che s’impara è, insomma, la responsabilità che fa crescere, nel provare a supporre strategie che possano modificare consuetudini erronee e portarle avanti verso una loro effettiva realizzazione.....
Facebook e l’impegno politico è un dualismo che non regge. Come qualunque social network, s’illude di far politica facendola online. Utile si, fondamentale per molte fasce di quelli che un tempo erano esclusi dall'informazione, il virtuale credo non possa tuttavia assolutamente prendersi la briga di annientare il reale. Perché è qui che finiscono molte energie di coloro che "stanno bene" e non è giusto.Sto cercando di non demonizzarlo più, di non farne il capro espiatorio di tutti i malesseri della società, ma nel nostro caso ribadisco come facebook o il blog di Giovanni Romano verranno usati solo come ausilio, uno strumento per preparare o accompagnare effettivi incontri e soprattutto quei “rivolgimenti” che saranno incisivi se ciascuno sarà sufficientemente motivato a trasformare il senso di impotenza in azione. E questa azione sarà concepita in differenti maniere, ma ci sarà.
Non diamo più udienza al mostro che impera da anni nelle nostre percezioni e che dice: “pensa, immagina, spera quanto vuoi, tanto tutto ciò che tenti sarà inutile”. È sempre possibile cambiare. Niente resta identico e se si fanno degli errori è comunque un modo per uscire dall’omologante visione sul serio apolitica di chi rinuncia a capire dove vive e perché vive in un certo modo e non in un altro, appellandosi a fatalità, destino, fortuna e tante altre amabili stronzate, che coloro che hanno avuto il privilegio di studiare non devono permettersi di incorporare con rassegnazione come tasselli indiscutibili a partire da cui si ridisegna il puzzle impazzito della società italiana.
C'è un'immobilità preoccupante che mortifica i talenti, costringendoli ad andarsene? Sfidiamola. E cerchiamo alternative finora non pensate, sfruttando la gioventù e la sua fame incontenibile. Il vuoto di potere che abbandona il Sud lo possiamo riempire con i nostri poteri, infinitamente più intelligenti e sofisticati di quello, capace di ragionare esclusivamente in termini di produttività, ricatti, vilipendio del poco visibile e dell'invisibile.E tutto questo va fatto anche andando per strada e lasciando che chi non ha avuto voce cominci a parlare, raccontarsi, scoprire le sue delusioni e additare le sue speranze. "La parola fa l'uomo libero. Chi non si sa esprimere è uno schiavo." dice Feuerbach.
Ma c'è chi non si può esprimere, proprio mentre trovano i più grandi spazi d'espressione coloro che non hanno nulla da dire o dicono intollerabili, offensive sciocchezze che, però, ci abituano a non provare più vergogna, tanto ingombranti e frequenti esse sono.
Anche se questo progetto non decollerà, penso che saper pensare e agire"contro" vada difeso come fondamento della nostra democrazia, troppo poco consapevole di sè stessa e per questo capace di farsi sballottare qua e là da ogni omuncolo che sappia sedurla con qualche promessa mirabolante, naturalmente falsa.
Seppelliamo ingenuità e non lasciamo che facciano di noi ciò che vogliono, anche molto più di quanto siamo capaci di capire fino in fondo. Svegliamoci tutti!".


A parte questi fastidiosi toni da arringapopoli, spero che più o meno il senso sia chiaro.
Concludo rapidamente con un altro "perché" che si lega poi alla stessa struttura del progetto. Il mio compito sarà quello di coordinatrice. E per me è entusiasmante la possibilità di scorgere come altri campi si muovono in direzione dello stesso tema, lontano da astrazioni filosofiche.

Beh..Sono disposta a rispondere ad ogni vostro "perché?", oltre a quelli non so quanto sufficientemente esplicitati qui.
Mi auguro che ci si veda tutti presto e si cominci quanto prima, delineando insieme gli obiettivi principali che dobbiamo porci ma che, strada facendo, non è inverosimile stravolgeremo:)

domenica 30 agosto 2009

Altri perchè del progetto

L'avevo scritto qualche tempo fa ma l'ho ritrovato solo adesso.

La nostra sola giustificazione, se ne abbiamo una, è di parlare in nome di tutti coloro che non possono farlo. (Camus)

Solo chi ha il coraggio di essere assolutamente negativo ha la forza di creare ciò che è nuovo. (L. Feuerbach)


Le ragioni di questo progetto.


Una buona parte dell’estate mi sono interrogata a lungo sul rapporto tra luogo e “coscienza”. Che dire.. "L’uomo, per il semplice fatto di essere uomo, di aver coscienza di sé, è , in confronto all’asino o al granchio, un animale malato. La coscienza è malattia." Miguel de Unamuno, Del sentimento tragico della vita.

O ancora "La coscienza è soltanto una parola che sogliono usare i vigliacchi, ed è stata inventata apposta per tenere in soggezione i forti." Shakespeare, Riccardo III, Atto V, Scena III (Re Riccardo)...
E non citiamo Nietzsche.

Sia quel che sia, solo nella natura riesco a sentirmi bene, come accade probabilmente a tutti.
Cosa c’è oltre me? Cosa c’è oltre il ritmo delle mie giornate, i doveri del "capo", le preoccupazioni derivanti dalla situazione politica odierna, le nevrastenie generate dal rapporto con il mio corpo e con il mio cuore, la dolcezza e la tristezza che scaturiscono dalle interazioni con i miei amabili amici, la difficoltà continua del sapersi mettere a disposizione del partner (quando lo si ha) indovinando in che momento di apertura effettivo egli o lei possa essere per tentare di andare al di là della mia visibilità?
La natura e il divino, “certamente”(di certo la prima, del resto non saprei..).
Ciò che noi chiamiamo natura è un poema chiuso in caratteri misteriosi e mirabili. (Schelling)

Ma ci sono altri uomini. Li conosciamo? No, ovviamente non si diventa amici di molte persone nella vita.
Eppure siamo una città. Vuol dire qualcosa?
Nient'altro che non sia il fatto che abitiamo in un tempo coevo la stessa terra, immagino. Alcuni di passaggio, altri a lungo. Non moriremo forse qui, non avremo figli da crescere nelle nostre scuole palermitane, non lo sappiamo.
Ma siamo tutti, momentaneamente o meno, palermitani.
Può essere tutto e nulla e ho scarsamente in passato creduto importante tutelare l’appartenenza ad un luogo, credendo nel cosmopolitismo al punto da non introiettare nemmeno un po’ dell’essere palermitani, se non in forma molto inconsapevole ( e che ora vorrei diventasse consapevole).

Ho fatto il Garibaldi. Una visione limitatissima di cosa voglia dire la realtà cittadina, una porzione nettamente privilegiata e sempre più disinteressata a sentirsi solidale con le minoranze se non per darsi un tono da radical chic. Questo è stato per me l’essere garibaldina alla fine degli anni ’90. Un’esperienza diametralmente opposta a quella fatta dai miei genitori, ma mia. Ed è stato poi soltanto colpa mia chiudermi in me stessa e non comprendere, al di là della letteratura e dei film, manifestazioni, qualche dibattito e via dicendo, cosa sia ciò che è al di là del borghese.

Fratture radicali le ho sognate in solitudine e tradotte in sceneggiature varie mai completate, ma a che cosa è servito se non ad aumentare il mio narcisismo?

Questo è il mio personale modo di vedere le cose. Ognuno di noi ha un passato diverso ed è meraviglioso che venga fuori, senza paura che l’altro derida o blindi in un assenso ciò che le parole, rotolando leggere, stentatamente possono raccontare.
Ciò che siamo stati, ciò che siamo e che saremo non verrà marcatamente fuori in questo modo, lo so.
Ci si conosce e riconosce in molteplici ambiti, ma se questo può servire anche a vedere più nitidamente certe cose delle nostre vite, potremmo ritenerci un pochino soddisfatti, no?
Non credo esistano vite davvero felici. Le radici della solitudine sono molteplici e non s’identificano interamente con quelle assenze materiali che riscontreremo in queste periferie. Sono di natura composita e non può esaurire una ricerca su di esse nemmeno una generazione.
Ma questo è il tempo più beffardo di tutti, concedetemi di dirlo. Perché ha preteso di dichiararsi felice, pago del benessere e del piacere, nascondendo orrori solo perché non ha avuto sufficiente forza, coraggio e determinazione per riconoscerli e prepararsi a combatterli.
La crisi economica ha fatto vacillare profondamente le ragioni del capitalismo e si è parlato tanto di sobrietà e necessità di ricalibrare le "categorie" esistenziali, sottolineando l'urgenza di reinventarsi una solidarietà, così facile da pronunciare, così difficile da realizzare.
Cosa è cambiato effettivamente?

Non so quanto sperare fino in fondo in qualcosa restituisca la serenità. La mia inquietudine, personalmente, è così radicata che temo condurrò giornate estremamente altalenanti per tutta la vita e questo non è affar vostro. Ma siccome è diventato troppo pesante perché sia solo mio, metto in ballo il mio affare sperando che possa alleggerirsi in questa nuova dimensione.
Perpetuamente alla ricerca, come gli altri, di ciò che ancora non so, non sento, non comprendo, non amo come vorrei, sento il bisogno di capire quanto Palermo abbia avuto degli influssi notevoli sul mio modo d’essere.
Politico, quindi, ma anche molto, infinitamente egoistico è questo progetto, me ne rendo conto. Forse anche il voler sapere meglio, ad esempio, cosa voglia dire quel luogo comune sulle “ragazze palermitane” -miscuglio, a quanto sembra, di frigidità e stupidità cronica-, che tanto spesso ho trovato sulla bocca di amici, periferici e non, sempre più di frequente negli ultimi anni, ecco, anche questo è un motivo personale che contraddice lo spirito a lasciar parlare le cose stesse, obliando il mio personale interesse.
Vi domando però a questo punto se ci sia un’identità femminile nuova e non l’abbiamo ancora ben chiaro... La ragazza palermitana! È un modello di riferimento o da rigettare? Scherzi a parte, che dire..Provochiamoci fino a morire dal ridere, se volete, ma non condanniamoci all’assenza di criticità.
Odiare i ragionamenti equivale ad odiare gli uomini, secondo Platone. Se ragiono tanto, in fondo, potrebbe dirsi che non vi odio (quanto meno non sistematicamente..).
Purtroppo non ho che rare volte ragionato benino, però sono pur sempre la bambina che mia madre mi ricorda spesso rompeva i coglioni ai bambini incontrati per strada, dicendo “ciao, io sono Silvia, e tu come ti chiami?”. Una grande scassacazzi, insomma, una profumiera ante – litteram, probabilmente, non esito a riconoscerlo, come accennai qualche tempo fa alla mia amica Daniela, dal momento che è stato spesso equivocata quest’apertura, e lo capisco.
Ma che volete..ognuno nasce con una natura e può modificarla quanto vuole, anche con quintali di forzato disprezzo per gli altri pensando di poter cercare meglio sé stessi rinunciando ad ognuno di loro... e chiudersi per mesi a casa e teorizzare l’assenza di rapporti amorosi come indispensabile… ma, per fortuna, qualcosa non cambia ed è per questo che sono qui, sempre single, ma felice di essere-nel-mondo (palermitano).

Com’è la realtà periferica palermitana? Com’era qualche anno fa? Come potrebbe diventare?
Qual è la sua specificità, se ne esiste una, rispetto alle zone periferiche delle altre città?

Come può una città, tutto porto, che nella sua storia è stata un proliferare di scambi, aperture e commistioni essere inospitale con gli immigrati, picchiati vicino alla stazione? Se prima guardava interamente al porto ed ora sembra non poterlo fare, non dobbiamo chiederci qualcosa?

La città è i suoi cittadini, ma c'è un tratto comune, quell' insularità dell'animo, che ci riguarda tutti, o non c'è?
Cosa è questa sicilianità, ammesso che ci sia?

Qual è il rapporto tra la mafia e i luoghi, qual è davvero questa relazione, percepita miliardi di volte attraverso letture, documentari, ma mai sul serio in prima persona, abitando in una zona - apparentemente almeno- "tranquilla"?
Tutto comincia negli anni Cinquanta?
Ci sono troppi interrogativi cui mi piacerebbe ci sforzassimo di rispondere, ma insieme, sfaccettando in molti modi le possibili risposte, mai definitive, che sorgeranno durante il nostro lavoro.

Io andrò con buona probabilità in Germania a settembre dell’anno prossimo. È necessario per portare avanti l’altra ricerca per cui vengo pagata e che sarà ciò che mi impegnerà primariamente nelle mie giornate.
Ma la serietà che intendo riporre nel lavoro accademico deve combaciare e crescere parallela a quella che intendo soffiare su questa ricerca, che mi vedrà sua coordinatrice, formulatrice di ipotesi e di concetti. Basta dire più si, che significano fatica, amore e devozione. Chi dice no non vuole nulla, rifiuta di porsi in contatto con il mondo credendosi il solo a soffrire, a porsi domande inquietanti, a vivere di stentate immagini e parole che non rispecchiano mai ciò che accade nel mondo, rinchiudendosi in una constatazione perpetua della vanità del tutto.
Il nichilismo, il destino secondo i più importanti filosofi della prima metà del Novecento di questa tradizione occidentale, è a mio avviso ciò contro cui bisogna lottare con una forza vibrante ma mai “dannunziana”, temeraria, che pensi di poter trascurare pericoli, difficoltà ed ambiguità, proponendo toni esaltati che hanno fatto più volte nella storia impazzire coloro che , assetati e disillusi, si sono lanciati su carri che credevano portassero verso la vittoria, ma erano solo di vincitori ignobili, decisi a far trionfare l’unità (dogmatica).
L’unità convive con la molteplicità. Non c’è unità che si possa pensare, dire, sospirare, toccare, sentire con il cuore, la mente ed il corpo che non passi dalla molteplicità. Difendere la molteplicità non è una gentile occupazione di chi retoricamente si dichiara aperto alle ragioni degli altri e professa umiltà senza pienamente riconoscersi limitato. Difendere la molteplicità è il solo modo per restare sbigottiti dalla bellezza. Dal bello della natura che compare in differenti forme, dal bello degli uomini, che racchiude storie che non si possono narrare e che possiamo solo intuire attraverso segni fonici, scritti, sguardi, sorrisi, balli, dipinti e tanto altro e dal bello che portiamo dentro e che non è mai identico a quello che avevamo da bambini. Ma si articola di continuo, muta il suo sapore e la sua traiettoria, a volte ci sembra sia svanito per sempre, solo perché abbiamo concesso troppo potere all’accondiscendenza, al mancato reagire a tutte le difficoltà e atroci problematiche che può capitare di incontrare in modo radicale nell’esistenza, o sfiorare appena, restando comunque coinvolti in constatazioni angosciate e tetre, capaci di spezzare l’innocenza dell’infanzia.
Forse sì, c’è il fanciullino in ognuno di noi, ma evitiamo di parlare come Pascoli.

Questo progetto non deve finire quando me ne vado. È un progetto permanente, perché permanenti restano i conflitti, le contraddizioni, i confini, i limiti che continuamente possiamo scegliere di sfidare o ignorare, ma esistono. Se non accettiamo i limiti non accettiamo nemmeno noi stessi, è banalissimo ricordarlo, ma è così. Siamo spesso sedotti dalla perfezione perchè la fibrillazione del desiderio è costante, incentrata sul "tu vali" e puoi sempre più arricchire te, te, te, te solo, uomo occidentale mediamente ricco, che, per esempio, allarghi e assottigli pancia e fianchi non per improvvisi raccolti buoni o tragiche carestie, ma perché talvolta vittima di una volontà molto debole e di un mercato troppo forte. O ancora svuoti lo sguardo di ogni ideale perché intorno ti sembra non possa mai nascere l’autorizzazione a rendere credibile il tuo intento, diventando arido e sempre più sospettoso della capacità d’amare altrui. O confini in una densa, nobilissima ricerca di trovare equilibrio nella sfera affettiva tutto quello che è il tuo "potere fare", garantendo una generosità preziosa esclusivamente ai tuoi cari. Oppure trovando dopo anni una giusta via di mezzo tra la devozione per il tuo privato e lo slancio a curare problemi che non ti condizionano immediatamente in prima persona, ma ti coinvolgono e senti richiedono la tua partecipazione. Sono molteplici le forme in cui possiamo vivere oggi. Non c’è una strada migliore delle altre, ognuno sceglie la sua, dirottando più volte il suo percorso, iniziando altri tragitti e magari abbandonandoli di nuovo, una volta scoperto il loro essere dei vicoli ciechi o la loro enorme lunghezza. Non giudico la mancanza di coraggio né l’ingenuità di chi si fa abbindolare, perché c’è sempre una forza in ciascuno che esorta al riscatto e di questa forza sono convinta sia consapevole ogni essere umano.
Torno ancora a William..."Considero il mondo per quello che é: un palcoscenico dove ciascuno deve recitare la sua parte".
Le molteplici strade che iniziamo a percorrere recitando o restando spettatori, siano soltanto segmenti o grandissimi viali, ho capito nel tempo che diventano davvero palcoscenici in cui ciascuno ha sempre la possibilità di assaporare l’assoluto. E quest’esperienza meravigliosa non richiede denaro, capacità fuori dal comune, bellezza esagerata o chissà cos’altro. Sono momenti che definiamo spesso poetici, varchi nella pesantezza della vita in cui la si coglie in tutta la sua potenza e si è grati e paghi di esserci, malgrado tutte le insoddisfazioni e la lista infinita di rimorsi e rimpianti che ci si sforza di cancellare ma cammina sempre, come se fosse incollata al petto, con noi.
Riuscire a scoprire altri compagni che hanno quella stessa luce negli occhi è ciò che più intensamente desidero da questo progetto. E so di essermi rivolta a persone che questo sogno non lo deluderanno, ma spero ancor più profondamente che potrò incontrare questa stessa energia vitale negli uomini e nelle donne che conosceremo insieme, in quei luoghi pretesto d’indagine solo per poterci concedere il giusto slancio a fiondarci nella nostra città con uno spirito differente, che rompa la monotonia, ma che, come ogni nuova strada, rischia di ripresentare le stesse caratteristiche di quelle precedenti o manifestare inattese, sconosciute insidie.

ricordare i morti

“Quando qualcuno muore le parole tinte di nero affogano in un oceano incapace di raccogliere le lacrime di tutti quelli che amarono intensamente colui o colei che li lasciò, per andare, si dice, in luoghi migliori di questo. Ciascuno conserva nel cuore anche solo un’immagine di quella creatura bianca ed è molto probabile che si ritrovi a lottare per non perderla, per non darla vinta all’oblio che, sovraccarichi di studi polisensoriali come siamo di questi tempi, rischia di addormentare la nostra coscienza, impallidire le nostre emozioni, disumanizzarci dunque, perché perdere memoria è perdere ciò che più di umano esiste al mondo. Perché l’uomo sa ricordare. E se a volte sembra che la struttura dei ricordi sia talmente solida da non far passare spiragli di luce sul futuro, in verità non poter ricordare è atroce, molto più del sentirsi schiacciati dalla sofferenza che il ricordo suscita in noi e che non è che un modo, forte, difficile da gestire, ma comunque un modo attraverso cui chi se ne andò si ripresenta, torna a vivere. Cedere all’illusorio tepore che garantisce la dimenticanza è il più efficace mezzo, invece, per far sparire ogni traccia e uccidere ancora i nostri antenati."

venerdì 28 agosto 2009

Dieci argomenti contro la verità

da D.Laerzio, Vite dei filosofi, in I presocratici, Laterza, Bari, 1969

Il primo tropo si riferisce alla differenza degli esseri viventi riguardo al piacere e al dolore, al danno e all'utilità. Da esso si deduce che essi non ricevono le medesime impressioni dai medesimi oggetti e che, perciò, tale conflitto genera necessariamente la epoché, la sospensione del giudizio.
Degli esseri viventi alcuni si generano senza mescolanza come quelli che vivono nel fuoco e l'araba fenice e i vermi; altri attraverso l'unione dei corpi, come gli uomini. Poiché alcuni sono costituiti in un modo, altri in modo diverso, anche le loro sensazioni sono differenti. Così, per esempio, i falchi hanno gli occhi acutissimi, i cani hanno l'olfatto finissimo.
E' logico, dunque, che alla differenza della facoltà visiva corrisponda la differenza delle espressioni. E se il tallo per la capra è commestibile, per l'uomo è amaro; e se la quaglia si nutre della cicuta, questa è mortale per l'uomo; e se il maiale mangia gli escrementi, il cavallo non li mangia.
Il secondo tropo si riferisce alle nature e alle idiosincrasie degli uomini. Per esempio Demofonte, maggiordomo di Alessandro, si riscaldava all'ombra, mentre al sole aveva freddo. Androne di Argo, come riferisce Aristotele, attraverso gli aridi deserti della Libia viaggiava senza bere.
Inoltre, chi preferisce coltivare la medicina, chi i campi, chi si dedica al commercio; e la medesima professione ad alcuni apporta danno, ad altri vantaggio; ne deriva conseguentemente la necessità di sospendere il giudizio.
Il terzo tropo è determinato dalla differenza dei pori che trasmettono le sensazioni. Così la mela dà l'impressione di essere pallida alla vista, dolce al gusto, fragrante all'odorato. E la stessa figura si vede ora in un modo ora in un altro, secondo le differenze degli specchi. Ne consegue che a ciò che appare non corrisponde una tale forma più che un'altra diversa.
Il quarto tropo riguarda le disposizioni individuali e, in generale, il mutamento di condizioni quali salute, malattia, sonno, veglia, gioia, dolore, giovinezza, vecchiaia, coraggio, paura, bisogno, abbondanza , odio, amore, calore, raffreddamento, oltre che la facilità o difficoltà del respiro. La diversità delle impressioni è condizionata dalla diversa condizione delle disposizioni individuali.
Neppure la condizione dei pazzi è contraria alla natura; perché la follia dovrebbe riguardare loro più di noi? Anche noi guardiamo il Sole, come se stesse fermo. Lo stoico Teone di Titorea, dormendo, passeggiava nel sonno e lo schiavo di Pericle compariva come sonnambulo sul tetto alto della casa.
Il quinto tropo è relativo all'educazione, alle leggi, alle credenze nella tradizione mitica, ai patti tra i popoli e alle concezioni dogmatiche. Esso abbraccia i punti di vista su ciò che è bello e brutto, vero o falso, buono e cattivo, sugli dèi e sulla formazione e corruzione del mondo fenomenico. La stessa cosa per alcuni è giusta, per altri ingiusta, o anche per alcuni è buona, per altri è cattiva. I Persiani non ritengono strana l'unione corporale con una loro figlia; i Greci, al contrario, la ritengono peccaminosa. I Massageti, come riferisce anche Eudosso nel primo libro del Giro della Terra, ammettono la comunanza delle donne, i Greci non l'ammettono. I Cilici godevano della pirateria, i Greci no.
Ogni popolo crede nei suoi dèi e c'è chi crede alla provvidenza e c'è chi non crede. Gli Egizi imbalsamano i loro morti prima di seppellirli, i Romani li cremano, i Peoni li gettano nelle paludi. La conseguenza è la sospensione del giudizio sulla verità.
Il sesto tropo è relativo alle mescolanze e alle unioni, secondo cui nulla appare puro, consistente esclusivamente in se stesso, ma congiunto all'aria, alla luce, all'umido, al solido, al caldo, al freddo, al movimento, alle esalazioni o soggetto ad altri influssi particolari. La porpora mostra un colore diverso alla luce del Sole, della Luna e di una lampada da notte. E anche il nostro colorito a mezzogiorno appare diverso che al tramonto del Sole.
E una pietra che è sollevata in aria da due persone è spostata facilmente in acqua o perché essendo pesante, è alleggerita dall'acqua, o perché, essendo leggera, è appesantita dall'aria. Ma ignoriamo le sue particolari proprietà...
Il settimo si riferisce alle distanze e alle diverse posizioni e ai luoghi e a ciò che a essi si riferisce. Secondo questo tropo, ciò che si crede sia grande appare piccolo, il quadrato appare tondo, il liscio appare sporgente, il diritto appare obliquo, il pallido appare di un altro colore. Il Sole, a causa della distanza, appare piccolo; i monti, guardati in lontananza, appaiono avvolti nell'aria e lisci, visti da vicino, sembrano ruvidi e pieni di crepacci.
Inoltre il Sole, quando si leva, ha un aspetto diverso da quando è nel mezzo del cielo. E il medesimo corpo appare diverso secondo che ci si trovi in un bosco o in un campo aperto. Anche l'immagine varia con il variare della posizione dell'oggetto, e il collo della colomba appare diverso, secondo che è volto in una posizione piuttosto che in un'altra. Poiché dunque la conoscenza di queste cose dipende dalle relazioni di spazio e di posizione, la loro propria natura ci sfugge del tutto.
L'ottavo tropo si riferisce alle quantità e qualità delle cose, alla molteplicità delle loro condizioni determinate dal caldo o dal freddo, dalla velocità o dalla lentezza, dall'assenza o dalla varietà dei colori. Così come il vino, bevuto moderatamente, rafforza l'organismo, bevuto in quantità eccessiva, lo indebolisce; così pure il cibo e simili.
Il nono tropo riguarda la continuità o la stranezza o rarità dei fenomeni. Così i terremoti non destano meraviglia in quelli presso i quali avvengono continuamente, e neppure il Sole, perché si vede ogni giorno.
Il decimo tropo si basa sul rapporto comparativo che intercorre, per esempio, tra il leggero e il pesante, tra il forte e il debole, tra il maggiore e il minore, tra l'alto e il basso.
Ciò che si trova a destra, non è a destra per natura, ma è inteso come tale in base alla posizione che ha rispetto ad un altro oggetto; mutata la posizione, non si trova più a destra. Analogamente padre e fratello sono termini relativi, così il giorno è condizionato dal Sole, come ogni cosa è condizionata dal nostro pensiero. Questi termini o concetti relativi, considerati in sè e per sè, sono non conoscibili.