domenica 11 ottobre 2009

vecchi pensieri sulle "illusioni"...

Come si può non dare significato?
Analizzare tutto attraverso la griglia della violenza che scorge in ogni operazione un che di “volontà di potenza”, dominio, di chi non riesce a restare nei limiti del suo non-sapere e vuole, nevroticamente, capire, capire, conoscere, illudendosi sia possibile sul serio farlo, diventa il modo peggiore per estirpare non solo creatività, ma anche profondità a ciò che l’uomo può essere.
Io ho sempre cercato l’umano. Per me la filosofia è una nobile strada che, accanto alla poesia, alla letteratura, a tutto ciò che non vuol misurare scientificamente, pur non essendoci nella mia visione mai stata- o meglio, essendoci stata ed essendo a furia di ragionamenti tramontata- un’identificazione di tutto ciò che è scientifico con qualcosa di“criminale”, immorale, incapace di dar pienezza come solo le arti possono fare-, ebbene è una nobile strada che cerca ciò che compete all’uomo, alla sua possibile felicità, intesa su un piano necessariamente comunitario.
Se non si radica nella comunità, la filosofia non esiste. Se ciò che cerco di elaborare con le mie ricerche è una verità per me, che gonfi e rigoonfi il mio già troppo ipertrofico ego, la filosofia è un’orrenda forma di vanità che mi illude però di star compiendo mirabili passi avanti nell’elevazione dell’umanità.
Io intendo da un po’ di tempo l’espressione “strada dell’umanità” come la strada che porta verso la realizzazione di un umano che ancora non esiste e penso che Nietzsche si sia sbagliato nel cercare il superuomo, non avendo ancora ben compreso, a mio avviso, come neppure l’uomo fosse mai effettivamente ancora venuto fuori da tante pastoie, da tanti gorghi della sua miseria che, non tanto per l’approssimazione alle bestie, quanto per un’incapacità di immaginare radicalmente quali sono le sue immense potenzialità, l’hanno reso spesso troppo sbiadito e avvilito, nel condurre esistenze scialbe, mutilate di sensi, sperimentazione di poesia, giochi intellettuali, visioni, scorci di bellezza, che è ciò che ci auguriamo possa poter vedere ed apprezzare anche l’ultimo degli uomini, occidentali e non, se è il vedere il senso più sviluppato che più di tutti amiamo e che appartiene anche ai ciechi, essendo capace chiunque di osservare anche l’invisibile, se solo si sa lasciar andare.
Insomma. Il dare significato, cercare senso, cercare verità, tante espressioni che da Nietzsche in poi risultano sospette, di chi vuole inchiodare il divenire ad un’ipostatizzazione della realtà, ripudiare il suo legame con la terra e replicare una morale debole da schiavi, che non osano sul serio ribellarsi a ciò che è più comodo accettare per non mettere a repentaglio la propria esistenza, sono espressioni che per me vanno riesaminate nel loro senso più specifico. E , se lo si farà, si ammetterà che gli appunti contro una debolezza nietzschiani restano, solo che ciò che si cerca non è lo Uebermensch, ma l’uomo, colui che risorge ogni giorno, se riesce a sperare, se riesce ancora ad illudersi, forse, di poter andare oltre sé, “sentendo” una rete di comuni progetti intorno a sé, cui partecipare, nel mantenimento della sua irriducibile differenza.
Scriveva Virginia Woolf: Le illusioni sono per l’anima quello che l’atmosfera è per la terra. Toglietele quella tenera coltre d’aria e vedrete le piante morire, i colori svanire.
Virginia Woolf, Orlando
Le illusioni non devono per nessuna ragione sparire dall’orizzonte umano. Io qui parlo di esperienze personali, ma andare in rotta con le proprie illusioni, ingaggiare una battaglia contro ciascuno dei propri pregiudizi coltivati nel tessuto familiare, culturale e via dicendo, più che accendere l’orgoglio di saper dire no e saper distinguersi dalla massa, non provoca. Decostruire la storia, la famiglia, i rapporti di parentela, l’amicizia, decostruire l’amore, la filosofia, rintracciando in ogni cosa elementi insostenibili che ne garantiscono inaffidabilità e nessuna durevolezza, sono operazioni imprescindibili. Ma se non segue non una “costruzione” certa, ma una riconfigurazione dello sguardo, uccidere una per una le fonti sicure del benessere dell’infanzia, analizzare con cinismo l’inutilità di tutto ciò che ci piaceva prima di “capire”, cosa fanno se non replicare il pericolo che ciò che più interessi l’uomo tutelare è proprio la stabilità e, scorgendo come niente gliela possa garantire, si possa dunque immaginare una vita priva di queste ingannevoli forme in cui gli altri ( non avendo sufficiente spirito critico, penserà) sembrano muoversi con agio e slancio, con una freschezza, un entusiasmo, che il vaglio rigoroso del ragionare ha spezzato, si spera non per sempre?
Ecco qual è la differenza… per Nietzsche da tutto ciò si doveva uscire per restare fedeli alla terra.
Ma gli uomini che oggi abbiamo intorno somigliano più a don Giovanni kierkegaardiani che a furia di restare fedeli alla terra, hanno svuotato ed insterilito ogni illusione, pensando dopo tutto di poterne fare a meno, ed i filosofi, invece, le hanno osservate come piccolezze cariche talvolta di importanza, ma nulle rispetto a quell’amore per la ricerca mediata dai testi che può essere spesso portata avanti, trangugiata, dimenticando gli esseri umani che intorno ci chiedono la loro attenzione.
Le illusioni, insomma, hanno da tempo una vita molto scomoda. Altro che atmosfera per la terra. Prima le illusioni sono state stropicciate dallo scientismo, il bisogno di dire che qualcosa sia reale, oggettivo, tangibile le ha annientate…
Poi anche in questo bisogno di rintracciare realtà si è intravista un’illusione ed è spesso invalsa la regola heideggeriana dell’attesa messianica di una verità che, essendo storica, l’uomo non ha alcun potere di svelare, pur restando l’unico capace di indagarla a partire da quegli inizi in cui ancora nulla era compromesso, quell’arcadia che sospendeva lo sciocco vociare dei dialettici, essendo la terra dei sapienti, gli dei che, fuggiti, ci hanno lasciato alle nostre questionuccie da poco, al nostro dover parlare, parlare, non radicalizzando la ricerca dell’essere che è la sola che dovremmo, agli occhi heideggeriani, aver cura di portare avanti perché la nostra esistenza sia autentica ( pur non essendo per questo tornaconto personale, di attestato di autenticità, diciamo, che cercare l’essere è un’operazione per Heidegger imprescindibile).
È l’essere che cerca di essere cercato dall’uomo?
Bene, ora dirò qualcosa di ancora più “pericoloso”.
La noia che consuma ogni attività rende presto la stessa ricerca dell’essere heideggeriana un’altra illusione.
Tutto ciò che è umano, questo credo sia il punto focale semplicissimo dell mia osservazione, è destinato a diventare illusione. Perché mantenere un costante senso di meraviglia e passione che voglia coinvolgere chi è altro da me nell’illustrazione dei mie interessi è qualcosa che si va spegnendo a poco a poco, costretto in mille gabbie, semplicemente decresciuto per vecchiaia, naturalissima e foriera di altre qualità, ma spesso distruttrice di quell’impeto che eccita la gioventù e la spinge a confrontarsi inventando se stessa.
Inventando. Invenzione. Illusione. Come possono odiarsi le illusioni? Come può non comprendersi che l’amore ridotto al sesso, fondamentale scambio di energia, tatto, generosità tra due amanti, non è comunque tutto ciò che l’uomo può ancora , pur illudendosi, vivere di magnifico quando, per fortuna, si lascia andare trovando un pò di forza per innamorarsi e legarsi a qualcuno?
Volontà di dominio? Possesso? Ormai siamo pronti a difendere la nostra libertà al punto che non possiamo più perdere tempo- così lo si concepisce- con chi ci piace. Tutto passa nel setaccio dell’indifferenza, perché niente ha più valore. Perché tutto è illusione ed illusoria è l’illusione stessa.
Questo stato di cose, però, io non voglio risolverlo credendo in Dio. Mi dispiace,io credo solo nel divino.
Ed ora che, dopo un’altra morte a stento durata qualche mese, mi sono reimmersa nella vita toccando qualcosa di autentico, sono ritornata in me, a queste visioni semplici, che sempre mi hanno guidato, e che spesso hanno precluso la manifestazione di altro, diventando inni ad una divinità amorosa fini a se stessi.
Non farò niente del genere, ma traggo dalla mia esperienza il conforto per sorvolare sull’astio contro le illusioni e desiderare che tanti, sempre di più intorno, possano lasciarsi trascinare in questo terreno scivoloso, che toglie il fiato, in cui danzi spesso con la morte, sperimentando tutta la tua pochezza tanto da diventar amico-a della tua vulnerabilità, eppure è il solo in cui sorseggio ancora l’infinito, mi vedo per come vengo vista, frantumo illusioni vecchie ormai ridotte a sciocchezze e ne faccio sorger di nuove, alcune delle quali disperderò domani ancora… ma solo così, solo resistendo in un sogno che parte dal reale trasfigurando il reale stesso, io so vivere. Solo così ho scelto di vivere. Inquieta, tremante, con non pochi cali di entusiasmo, ma giusto per poter ricordarmi che è questa la mia dimensione. L’innamoramento perpetuo di ciò che diviene lontano dal mio controllo e che, pure, il fatto di sentirmene partecipe non condanna alla nevrosi del possesso, ma alla vita che è mia non meno di quanto lo sia degli altri.

È possibile la pace?

Essere civili significa o non significa ripudiare la guerra? La civiltà è un male minore o l'origine di tutti i guai? Mi interrogo sul bene e sul male da molto tempo e da molto tempo rigetto ogni forma manichea che li vorrebbe contrapposti. Rousseau ha dei limiti, Kant ne ha altrettanti, e nemmeno i Greci sono inattaccabili, naturalmente (per quanto l'etica aristotelica rimane per me fondamentale..). Ma a parte le infinite disquisizioni dei filosofi sull'argomento, ovviamente arte, letteratura e religione sono terreni esplorabili senza sosta- insieme all'antropologia, la sociologia, la psicologia e tantissime "scienze umane" figlie della Signora filosofia- per cercare qualcosa cui ispirarsi o in cui ritrovare ciò che la propria vita ha già toccato mille volte in forma più o meno "estetica" e "divina".
Beh, l'uomo contemporaneo occidentale fa fatica più di tutti gli altri a credere che la sua "ragione" potrà portarlo lontano dal fare il male, a sè stesso e agli altri. Pur avendo realizzato in molti campi delle conquiste formidabili, è noto ormai spero a tutti quanto il progresso tecnologico non sia per niente eguagliato da quello "morale".
Albert Einstein nel 1932 ricevette dalla Società delle Nazioni l'incarico di avviare un dibattito con uomini di cultura di rilievo, su temi a suo piacimento. Quello che vi riporto è parte di uno scambio epistolare con Sigmund Freud riguardo la possibilità di una pace come segno dell'evoluzione psichica degli uomini.
Non credo lo leggerà nessuno. Ma è splendido nella sua semplicità. E mi andava di condividerlo...

Caro signor Freud,
…vi è una possibilità di dirigere l’evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino più capaci di resistere alle psicosi dell’odio e della distruzione? Molto cordialmente
Suo Albert Einstein


Caro Signor Einstein,
… Lei si meraviglia che sia tanto facile infiammare gli uomini alla guerra, e presume che in essi ci sia effettivamente qualcosa, una pulsione all’odio e alla distruzione, che è pronta ad accogliere un’istigazione siffatta. Non posso far altro che convenire senza riserve con Lei. Noi crediamo all’esistenza di tale pulsione e negli ultimi anni abbiamo appunto tentato di studiare le sue manifestazioni..
Noi presumiamo che le pulsioni dell’uomo siano soltanto di due specie, quelle che tendono a conservare e a unire, da noi chiamata sia erotiche (esattamente nel senso in cui Platone usa il termine Eros nel Simposio) sia sessuali, estendendo intenzionalmente il concetto popolare di sessualità, e quelle che tendono a distruggere e a uccidere; queste ultime le comprendiamo tutte nella denominazione di pulsione aggressiva o distruttiva.
Come Lei vede, si tratta propriamente soltanto della delucidazione teorica della contrapposizione tra amore e odio, universalmente nota, e forse originariamente connessa con la polarità di attrazione e repulsione che interviene anche nel Suo campo di studi.
Non ci chieda ora di passare troppo rapidamente ai valori di bene e di male. Entrambe le pulsioni sono parimenti indispensabili, perché i fenomeni della vita dipendono dal loro concorso e dal loro contrasto.
Ora, sembra che quasi mai una pulsione di un tipo possa agire isolatamente, essa è sempre connessa (legata, come noi diciamo) con un certo ammontare della controparte, che ne modifica la meta o, talvolta, subordina il raggiungimento di quest’ultima a determinate condizioni.
Così, per esempio, la pulsione di autoconservazione è certamente erotica, ma ciò non toglie che debba ricorrere all’aggressività per compiere quanto si ripromette. Allo stesso modo alla pulsione amorosa, rivolta agli oggetti, necessita un quid della pulsione di appropriazione, se veramente vuole impadronirsi del proprio oggetto. La difficoltà di isolare le due specie di pulsioni nelle loro manifestazioni ha fatto sì che per tanto tempo non riuscissimo a identificarle.
Le azioni umane sono soggette anche a un’altra complicazione. È assai raro che l’azione sia opera di un singolo moto pulsionale, il quale d’altronde deve essere già una combinazione di Eros e distruzione. Di regola devono concorrere parecchi motivi similmente strutturati per rendere possibile l’azione… Pertanto, quando gli uomini vengono incitati alla guerra, è possibile che si desti in loro un’intera serie di motivi consenzienti, nobili e volgari, alcuni di cui si parla apertamente e altri che vengono sottaciuti. Non è il caso di enumerarli tutti.
Il piacere di aggredire e di distruggere è certamente uno di essi; innumerevoli crudeltà della storia e della vita quotidiana confermano l’esistenza e la forza dei suddetti piaceri. Il fatto che questi impulsi distruttivi siano mescolati con altri impulsi, erotici e ideali, facilita naturalmente il loro soddisfacimento.
Talvolta, quando sentiamo parlare delle atrocità della storia, abbiamo l’impressione che i motivi ideali siano serviti da mero paravento alle brame di distruzione; altre volte, per esempio per le crudeltà della Santa Inquisizione, che i motivi ideali fossero preminenti nella coscienza, mentre i motivi distruttivi recassero a quelli un rafforzamento inconscio. Entrambi i casi sono possibili…
Vorrei indugiare ancora un attimo sulla nostra pulsione distruttiva, meno nota di quanto richiederebbe la sua importanza. Con un po’ di speculazione ci siamo in effetti persuasi che essa opera in ogni essere vivente e che la sua aspirazione è di portarlo alla rovina, di ricondurre la vita allo stato della materia inanimata. Con tutta la serietà le si addice il nome di pulsione di morte, mentre le pulsioni erotiche stanno a rappresentare gli sforzi verso la vita.
La pulsione di morte diventa pulsione distruttiva allorquando, con l’aiuto di determinati organi, si rivolge all’esterno, contro gli oggetti. Per così dire, l’essere vivente in tanto protegge la propria vita in quanto ne distrugge un’estranea.
Una parte della pulsione di morte, tuttavia, rimane attiva all’interno dell’essere vivente e noi abbiamo tentato di derivare tutta una serie di fenomeni normali e patologici da questa interiorizzazione della pulsione distruttiva.
Siamo perfino giunti all’eresia di spiegare l’origine della nostra coscienza morale con questo rivolgersi dell’aggressività verso l’interno. Noti che non è affatto indifferente se questo processo è spinto troppo oltre; in tal caso sortisce un effetto immediatamente malsano.
Invece il volgersi di queste forze pulsionali distruttive nel mondo esterno scarica l’essere vivente e non può non sortire un effetto benefico. Ciò serve come scusa biologica a tutti gli impulsi esecrabili e perniciosi contro i quali noi ci battiamo.
Si deve ammettere che essi sono più vicini alla natura che la resistenza con cui li contrastiamo e di cui ancora dobbiamo trovare una spiegazione. Lei ha forse l’impressione che le nostre teorie siano una specie di mitologia, neppure lieta in verità. Ma non approda forse ogni scienza naturale a una sorta di mitologia? Non è così anche per Lei, nel campo della fisica?
Per gli scopi immediati che ci siamo proposti, da quanto precede ricaviamo la conclusione che non c’è speranza di poter sopprimere le inclinazioni aggressive degli uomini.
Si dice che in contrade felici della Terra, dove la natura offre a profusione tutto ciò di cui l’uomo ha bisogno, ci siano popoli la cui vita scorre nella mitezza, presso i quali la coercizione e l’aggressione sono sconosciute. Ci credo poco; mi piacerebbe saperne di più, su queste felici creature…
Partendo dalla nostra mitologica dottrina delle pulsioni, giungiamo facilmente a una formula per definire le vie indirette di lotta alla guerra. Se la propensione alla guerra è un prodotto della pulsione distruttiva, contro di essa è ovvio ricorrere all’antagonista di questa pulsione: l’Eros. Tutto ciò che fa sorgere legami emotivi tra gli uomini deve agire contro la guerra. Questi legami possono essere di due specie.
In primo luogo relazioni che, pur essendo prive di meta sessuale, assomiglino a quelle che si hanno con un oggetto d’amore. La psicoanalisi non ha bisogno di vergognarsi se qui si parla di amore, perché la religione dice la stessa cosa: Ama il prossimo tuo come te stesso. Ora, questa è un’esigenza facile da porre, ma difficile da realizzare.
L’altro tipo di legame emotivo è quello che si stabilisce mediante identificazione. Tutto ciò che provoca solidarietà significative tra gli uomini risveglia sentimenti comuni di questo genere, le identificazioni. Su di esse riposa in buona parte l’assetto della società umana..
Fa parte dell’innata e ineliminabile disuguaglianza tra gli uomini il fatto che essi si distinguano in capi e seguaci. I seguaci rappresentano la stragrande maggioranza, hanno bisogno di un’autorità che prenda decisioni per loro, alla quale per lo più si sottomettono incondizionatamente…
L’ideale sarebbe naturalmente una comunità umana che avesse assoggettato la sua vita pulsionale alla dittatura della ragione. nient’altro potrebbe produrre un’unione tra gli uomini altrettanto perfetta e tenace, capace di resistere perfino alla rinuncia di vicendevoli legami emotivi. Ma, con ogni probabilità, questa è una speranza utopistica..
Vorrei tuttavia trattare ancora un problema , che nel Suo scritto Lei non solleva e che m’interessa particolarmente. Perché ci indigniamo tanto contro la guerra, Lei e io e tanti altri, perché non la prendiamo come una delle molte penose calamità della vita? La guerra sembra conforme alla natura, pienamente giustificata biologicamente, e in pratica assai poco evitabile…
Da tempi immemorabili l’umanità è soggetta al processo dell’incivilimento (altri, lo so, chiamano più volentieri questo processo: civilizzazione). Dobbiamo a esso il meglio di ciò che siamo diventati e buona parte dei nostri mali. Le sue cause e origini sono oscure, il suo esito incerto, alcuni dei suoi caratteri facilmente penetrabili.
Forse esso porta all’estinzione del genere umano, giacché in più di un modo pregiudica la funzione sessuale, e già oggi le razze incolte e gli strati arretrati della popolazione si moltiplicano più rapidamente dei ceti sociali di elevata cultura.
Forse questo processo si può paragonare all’addomesticamento di certe specie animali; senza dubbio comporta modificazioni fisiche; tuttavia non ci si è ancora familiarizzati con l’idea che l’incivilimento sia un processo organico di tal specie.
Le modificazioni psichiche che intervengono con l’incivilimento sono invece vistose e assolutamente inequivoche. Esse consistono in uno spostamento progressivo delle mete pulsionali e in una restrizione dei moti pulsionali.
Sensazioni che per i nostri progenitori erano dense di piacere sono diventare per noi indifferenti, o addirittura intollerabili; esistono ragioni organiche del fatto che le nostre esigenze ideali, etiche ed estetiche, sono mutate. Di tutti i caratteri psicologici della civiltà , due sembrano i più importanti: il rafforzamento dell’intelletto, che comincia a dominare la vita pulsionale, e l’interiorizzazione dell’aggressività, con tutti i vantaggi e i pericoli che da ciò conseguono.
Orbene, poiché la guerra contraddice nel modo più stridente tutto l’atteggiamento psichico che ci è imposto dal processo di incivilimento, dobbiamo necessariamente ribellarci contro di essa : semplicemente non la sopportiamo più.
Non si tratta soltanto di un rifiuto intellettuale e affettivo: per noi pacifisti si tratta di un’intolleranza costituzionale, e di un’idiosincrasia portata, per così dire, al massimo livello. E mi sembra in effetti che le degradazioni estetiche della guerra concorrano a determinare il nostro rifiuto in misura quasi pari alle sue atrocità.
Quanto dovremo aspettare perché anche gli altri diventino pacifisti? Non si può dirlo, ma forse non è utopistico sperare che l’influsso di due fattori ( un atteggiamento più civile e il giustificato timore degli effetti di una guerra futura) ponga fine alle guerre in un prossimo avvenire. Per quali vie dirette o traverse non possiamo indovinarlo. Nel frattempo possiamo dire una cosa: tutto ciò che favorisce l’incivilimento lavora anche contro la guerra.