mercoledì 11 novembre 2009

Al di là del bene e del male

Vagando tra le molte più raffinate e più rozze morali che hanno sin qui regnato sulla Terra o che ancora vi regnano, ho regolarmente trovato determinati tratti ricorrenti e tra loro collegati: sino che alla fine mi si rivelarono due tipi base e saltò fuori una differenza radicale.
C’è una morale dei padroni e una morale degli schiavi; aggiungo immediatamente che in tutte le culture superiori e più miste si presentano anche tentativi di mediazione tra le due morali e più spesso ancora la confusione tra le due e il reciproco fraintendimento, addirittura il loro duro parallelismo, persino nello stesso individuo, all’interno della stessa anima.
Le differenziazioni morali di valori sono nate o sotto una specie dominante, che prendeva coscienza con piacere delle proprie differenze rispetto ai sudditi, o sotto i sudditi, gli schiavi e i sottoposti di ogni grado. Nel primo caso, quando sono i dominatori a determinare il concetto di buono, vengono recepiti come distintivi e determinanti gli stati elevati e fieri dell’anima. L’uomo nobile separa da sé le creature nelle quali si manifesta il contrario di simili elevati e fieri stati: egli li disprezza.
Si noti subito che in questa prima morale il contrasto buono e non buono significa nobile e spregevole: il contrasto buono e cattivo ha un’altra origine. Si disprezza il vile, il pauroso, il meschino, colui che pensa all’angusta utilità; altrettanto il diffidente, con il suo sguardo non franco, colui che si umilia da sé, la specie degli esseri-umani-cane che si lascia maltrattare l’adulatore mendico, soprattutto il bugiardo: fede basilare di tutti gli aristocratici è che il popolo vile mente. Noi veritieri, così si chiamavano nell’antica Grecia i nobili.
È noto che le definizioni di valore morale sono state ovunque attribuite prima agli esseri umani e solo successivamente deviate sulle azioni; motivo per cui è un grave errore che gli storici della morale prendano l’avvio da interrogativi quali: perché è stata lodata l’azione compassionevole?
La specie degli uomini nobili sente come determinante di valori se stessa: non ha bisogno di farsi chiamare buona, essa pensa che ciò che mi danneggia è di per sé dannoso, essa sa di essere l’elemento che conferisce il primo valore alle cose, è creatrice di valori. Onora tutto ciò che conosce di sé: una morale simile è autoglorificazione.
Sullo sfondo c’è la sensazione di pienezza, di potere che vuole straripare, la felicità della massima tensione, la consapevolezza di una ricchezza che vorrebbe donare e rimettere: anche il nobile aiuta l’infelice, ma non, o quasi non, per compassione, piuttosto per un impulso generato dalla sovrabbondanza di potere…
Diversamente stanno le cose con il secondo tipo di morale, la morale degli schiavi. Posto che i violentati, gli oppressi, i sofferenti, i prigionieri, gli incerti di sé e gli stanchi facciano morale: quale sarà l’elemento comune alle loro valutazioni morali? Probabilmente troverà espressione un sospetto pessimista verso l’intera situazione umana, forse una condanna dell’essere umano e della sua situazione. L’occhio degli schiavi non è favorevole alle virtù dei potenti: è scettico e sfiduciato, ha una sottile sfiducia verso ogni bene che viene venerato nel mondo dei potenti, vorrebbe convincersi che là persino la felicità non è autentica.
Al contrario vengono messe in evidenza e soffuse di luce le caratteristiche che servono a facilitare l’esistenza ai sofferenti: ecco che vengono esaltati la compassione, la mano compiacente e disposta ad aiutare, il cuore caldo, la pazienza, la laboriosità, l’umiltà, la cordialità; giacché in questo caso sono le caratteristiche più utili e quasi l’unico rimedio per sopportare l’oppressione dell’esistenza.
La morale degli schiavi è essenzialmente una morale utilitaria. Qui c’è il focolaio di quei famosi contrari buono e cattivo: nel male si sente il potere e la pericolosità, una certa spaventosità, finezza e forza che non consentono al disprezzo di affiorare.

Friedrich Nietzsche


Prima o poi scriverò un post su "valore", "disvalore", "uomo", "etica", "schiavo", "padrone", "dignità", "superuomo", "morte di Dio" e tanto altro... Tanto qui si scrive, incollando qualcosa che merita riflessioni che un blog, una lettera, un articolo non cattureranno mai.
Amo Nietzsche e lo odio con la stessa intensità.
Mi fa vergognare di me stessa e mi fa deridere l'umanità intera al tempo stesso..Spesso ho detto che non mi sembrerebbe così folle trovarmi ad abbracciare un cavallo, ma la mia è solo incoscienza stupida, di picciridda che deve crescere, al di là del bene e del male... Viva i frammenti, l'assenza di senso, il caos...Peccato studiare Gadamer e Platone, non ho l'età, ma è qui che mi trovo e non posso sempre solamente decostruire ... Il mio sì alla vita, per adesso, è questo:)

venerdì 6 novembre 2009

Distrarsi per non morire... Pascal ed il diverstissment

Noia. Niente per l'uomo è insopportabile come l'essere in pieno riposo, senza passioni, senza affari da sbrigare, senza svaghi, senza un'occupazione. Egli avverte allora la sua nullità, il suo abbandono, la sua insufficienza, la sua dipendenza, la sua impotenza, il suo vuoto. Subito si leveranno dal fondo della sua anima la noia, la malinconia, la tristezza, l'afflizione, il dispetto, la disperazione.

Distrazione. Delle volte mi sono messo a considerare le diverse forme di agitazione degli animi, e i pericoli e le fatiche a cui si espongono, a corte come in guerra, e donde nascano tante contese, passioni, imprese audaci e spesso dissennate. Ho scoperto che l'infelicità degli uomini deriva da una sola cosa, che è quella di non riuscire a starsene tranquilli in una stanza.

Un uomo che ha mezzi sufficienti per vivere, se sapesse starsene a casa sua traendone piacere, non uscirebbe per mettersi in mare o all'assedio di una postazione. Non si comprerebbe così a caro prezzo un grado nell'esercito, se non trovasse insopportabile non andar via di città;e cerca le conversazioni e gli svaghi dei giochi solo perchè non riesce a stare in casa con piacere.

Ma quando ci ho maggiormente riflettuto e, dopo aver trovato la causa di tutti i nostri mali, ne ho voluta scoprire la ragione, mi sono reso conto che ce n'è una molto concreta, che consiste nell'infelicità intrinseca della nostra condizione debole e mortale, e così miserabile che niente ce ne può consolare, quando ci soffermiamo a pensarci.

Qualunque condizione ci si immagini, se si mettono assieme tutti i beni che si possono avere, l'essere re è la più bella condizione del mondo, ma ci si immagina tuttavia un re accompagnato da tutte le soddisfazioni che può prendersi. Se lo si immagina invece privo di svaghi mentre valuta e riflette su ciò che è, felicità e mollezze non lo sorreggeranno più, egli soccomberà inevitabilmente di fronte alle minacce che vede, alle rivolte che possono verificarsi, e infine alla morte e alle malattie che sono inevitabili; e così, se è privato di ciò che si chiama distrazione, eccolo infelice, più infelice ancora del più misero dei suoi sudditi che giochi e si possa distrarre.

Da ciò si desume perchè il gioco e la ricerca della compagnia femminile, la guerra, le alte cariche siano mete tanto ambite. Non che vi si trovi effettivamente della felicità, né che ci si immagini che la vera beatitudine consista nel denaro che si può vincere al gioco, o in una lepre che corre: non si accetterebbero come doni, se fossero offerti.

Non è questo possesso, molle e placido, e che ci lascia pensare all'infelicità della nostra condizione, che si ricerca, né i pericoli della guerra, né gli affanni delle cariche, ma è il frastuono che ci distoglie dal pensarci e ci distrae. ragion per cui si ama di più la caccia che la preda.

Ciò spiega il fatto che gli uomini amano tanto il chiasso e la confusione; ciò spiega perchè la prigione è una pena tanto orribile; ciò spiega perchè il piacere della solitudine è una cosa incomprensibile. E, infine, spiega che la ragione principale della felicità della condizione dei re è che tutti si sforzano incessantemente di distrarli e di procurar loro ogni sorta di piaceri.

Il re è circondato da persone che non pensano ad altro che a divertire il re e a impedirgli di pensare a se stesso. Perché è infelice, anche se è un re, se ci pensa. Ecco tutto quello che gli uomini hanno potuto inventarsi per rendersi felici.
E quelli che sull'argomento fanno della filosofia, e che giudicano assai poco ragionevole che la gente passi l'intera giornata a correr dietro a una lepre che non si vorrebbe aver comperato, non capiscono nulla della nostra natura. Quella lepre non ci impedirebbe la vista della morte e delle altre miserie, ma la caccia, che ce ne distrae, può farlo.
Essi si immaginano che, una volta ottenuta una certa carica, potrebbero subito riposarsi con piacere, e non avvertono la natura insaziabile della loro avidità. Credono sinceramente di cercare il riposo, e non cercano di fatto che l'agitazione. Sono mossi da un istinto segreto che li porta a cercare occupazioni e distrazioni all'esterno, che si origina dal sentimento delle loro miserie incessanti.

Sono però mossi anche da un altro istinto segreto, che è la traccia della grandezza della nostra natura primigenia, che fa intuire loro che la vera felicità non risiede in effetti che nella quiete, non nel trambusto; e da questi due istinti contrastanti si origina in loro un confuso proposito, che si nasconde ai loro occhi nel fondo della loro anima, che li spinge a tendere al riposo attraverso l'agitazione e a immaginare sempre che l'appagamento di cui non godono arriverà se, una volta superate alcune difficoltà messe in conto, potranno in questo modo aprirsi la via al riposo.

Così scorre tutta la vita. Si cerca il riposo combattendo una serie di ostacoli; e, una volta che li si è superati, il riposo diventa insopportabile; perchè si pensa alle miserie in cui ci si trova o a quelle che ci minacciano. E quand'anche ci si vedesse abbastanza al riparo da tutte le parti, la noia, di sua privata autorità, non farebbe a meno di venire a galla dal fondo del cuore, dove è naturalmente radicata, e di riempire lo spirito con il suo veleno.