domenica 22 maggio 2011

Valèry e la libertà

DALLA PAROLA, AL CONCETTO, ALL’AZIONE..E POI, DI NUOVO, ALLA PAROLA.
Scrive Valèry:
LIBERTà: una di quelle parole detestabili che hanno più valore che significato; che invece di parlare, cantano; invece di rispondere, domandano; di quelle parole che hanno fatto tutti i mestieri, e la cui memoria è imbrattata di Teologia, di Metafisica, di Morale e di Politica; parole perfette per la controversia, la dialettica, l’eloquenza; appropriate sia alle analisi illusorie e alle sottigliezze infinite sia ai propositi di frasi foriere di tempesta.
Per questo nome, “Libertà”, trovo un significato preciso solo nella dinamica e nella teoria dei meccanismi, dove designa l’eccedenza del numero che definisce un sistema materiale sul numero degli ostacoli che si oppongono alle deformazioni di tale sistema, o gli impediscono certi movimenti.
Questa definizione, che deriva da una riflessione su un’osservazione elementare, meriterebbe di essere richiamata a fronte della significativa impotenza del pensiero morale a circoscrivere in una formula ciò che esso intenda con “libertà” di un essere vivente e dotato di coscienza di sé e delle proprie azioni. Ma, quando non vi è alcun riferimento comune che lo obblighi a mettersi d’accordo, nulla è più fecondo di ciò che consente alle intelligenze di dividersi e di sfruttare le loro divergenze.
Avendo dunque le une vagheggiato che l’uomo fosse libero, senza poter dire al riguardo cosa intendessero con queste parole, le altre, prontamente, immaginarono e sostennero che non lo era. Parlarono di fatalità, di necessità, e, molto più tardi, di determinismo; ma tutti questi termini appartengono esattamente allo stesso livello di precisione di quello cui si oppongono. Non arrecano alla questione alcun contributo che la sottragga a quell’indeterminatezza entro la quale tutto è vero.
Il “determinista” ci giura che, se si sapesse tutto, si sarebbe capaci anche di dedurre e predire il comportamento di ciascuno in ogni circostanza, il che è piuttosto ovvio. Il guaio è che “sapere tutto” non ha alcun senso.
Appena si stringe sui termini, in questo argomento come in tanti altri, tutto diventa assurdo: erano gonfi solo di imprecisione. Si constata facilmente che il problema non ha mai potuto essere veramente enunciato, che tale circostanza non ha mai impedito a nessuno di risolverlo, e che essa gli conferisce una sorta di eternità: esaspera la mente costringendola in un circolo chiuso. Il celebre matematico Abel, parlando di una cosa totalmente diversa, diceva: “Bisogna dare al problema una forma tale per cui sia sempre possibile risolverlo”.
È questa forma che bisognava cercare. Chè se è introvabile, il problema non esiste.
Se questa prima ricerca viene a mancare, il pensiero che si accalora su una parola si smarrisce in una quantità di espressioni particolari: a volte adotta un significato più o meno composito, una sorta di media tra quelli vigenti; altre volte un significato assolutamente convenzionale, che ben presto si confonde con quello in uso- ed ecco introdursi l’infinito degli equivoci e delle fluttuazioni del pensatore stesso.
È un errore molto facile, e tanto comune da potersi dire costante, fare di un problema di statistica e di notazioni radunate in modo casuale una questione di esistenza e di sostanza. Non vi è, non vi può essere nulla di più nel significato di una parola se non ciò che ogni intelligenza ha ricevuto dalle altre, in mille occasioni diverse e disparate, cui si aggiungono gli usi che essa stessa ne ha fatto, tutti i brancolamenti di un pensiero nascente in cerca della sua espressione. È dunque alla sola filologia, loro giudice naturale, che conviene sottoporre tutte le questioni i cui termini possono sempre essere messi in discussione. Soltanto ad essa spetta restituire le origini e le peripezie del significato e dell’uso delle parole, ed essa non presuppone loro un “significato autentico”, una profondità, un valore diverso da quello di posizione e di circostanza, che risiederebbe e sussisterebbe nel termine isolato.

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