mercoledì 10 aprile 2013

Considerazioni antiche sul dolore

"È proprio del dolore non avere vergogna di ripetersi." Emil Cioran Quando ancora inon esisteva una legislazione decisa a rimuovere le cause di sofferenze ed ingiustizie subite da cittadini considerati schiavi, privi di ogni tipo di diritto, ciò che era considerato “dolore” da parte degli uomini liberi, lungi dall'essere legato a questioni materiali, non poteva che essere concepito come un moto originario dell’anima, capace di imprimere al corpo sensazioni sgradevoli che potevano essere controllate con l’astinenza, coltivando l’autarchia, la non dipendenza da nulla di esteriore. Questo uomo greco "libero"che sa di doversi riconoscere limitato eppure fa di tutto per attestare la sua autonomia è già un uomo denso di conflitti che il “conosci te stesso, ma fallo in dialogo che è meglio” non riesce sul serio a rimuovere. Il dolore non svanisce parlando, ma la parola può essere una buona terapia, l’inizio, per dir così, di un processo faticoso che deve vedere coinvolto attivamente il soggetto che patisce, deciso a fare chiarezza razionalmente sulle cause del suo dolore, pronto a non attribuire ad altri responsabilità che sono unicamente sue e determinato a non confondere, semmai, evidenti segni di sopraffazione fisica e morale con determinati servizi fatti per amore o per “dovere”. Se un simile cercare dialetticamente le cause del dolore non avviene grazie ad un’altra voce, un altro punto di vista, il dolore cresce e può originare delle meravigliose attitudini letterarie, diversamente poco probabili. Il che significa che spesso e volentieri si diventa scrittori ed artisti infrangendo il tessuto della lingua e cercando di rimuovere l’istinto al suicidio assorbendolo in vie di fuga estetiche. L’aisthesis viene cioè differita, il dolore preso come un fagotto di cui osservare le varie pieghe, ma senza decomporlo sul serio mai. Continua ad abitare in chi ha buona memoria, perché ogni volta avrà la possibilità di ritornare nuovamente su quelle crepe oscure del suo vivere interiore che non sono percepibili esteriormente, come sa Hegel. Ma che ci sono. Il mito dell’invulnerabilità è del tutto estraneo al pensiero di Gadamer. Ma non a quello greco platonico, che non accentua la carica tragica del dolore umano, preferendo sostenere la via dell’impassibilità, di una scelta prudente dei piaceri e dolori da accogliere nella propria esistenza, dando prova di fedeltà a quel genere misto cui appartiene la vita umana. Perché ciò che Platone ha scelto è una vita misurata e contenitiva di tutto il caos. La strada segnata è quella di un equilibrio dinamico che non ha altro interesse se non quello di conservare e non creare nuovi itinerari possibili, incidendo attivamente nel reale. È una rassegnazione inaudita quella che percorre il Filebo. La visione di una vita come malattia che va curata somministrando adeguatamente le dosi, escludendo tutto il “poter essere”, considerato nocivo perché capace di far vacillare l’ordine comunitario. Quando la fede nella comunità si perde o sfuma sostanzialmente, com’è accaduto in Occidente soprattutto nel secolo scorso dopo la fine delle guerre mondiali, la stessa concezione del dolore subisce un mutamento sostanziale. Essa viene dibattuta in gruppi di aiuto-aiuto, piccole comunità terapeutiche,spesso con finalità disinteressate al profitto, frutto di studi eccellenti di bravi psichiatri che hanno segnato la storia della medicina. Progressivamente, però, la stessa storia della terapia si adatta alle leggi di mercato ed il dolore viene discusso e diventa oggetto di studi sempre più complessi non perché esso sia pericoloso per la pace della comunità, ma perché può essere una merce utile in cui investire e da cui trarre numerosi guadagni nel potente ed inesorabile gioco di potere che regola gli scambi sociali. Lo sfruttamento del dolore del prossimo ha orripilato la filosofia al punto da convincere molti studiosi a convertirsi nelle figure dei consulenti, richiedenti solo un piccolo consenso per aiutare il paziente a trovare in sé vie razionali capaci di liberarlo dalla sofferenza. Ma adesso? Quanti sono i guariti in virtù della virtù? Sarebbe interessante chiederlo. Nessuno può costringerti a stare al discorso se non vuoi. Lo sapeva Platone, che infatti abbandonò i siracusani dopo diversi tentativi e lasciava lo stesso Filebo seduto inclinato, mentre portava avanti le sue finzioni letterario-filosofiche sulla vita buona, finzioni che sapeva non potevano che essere condotte mettendo a tacere, almeno nell’armonia della scrittura dialogica, un ostacolo temibilissimo capace di rinfacciare di continuo l’inconsistenza di tali visioni volte al giusto, al bene ed al vero, che restano giustificabili unicamente nel recinto della ragione dialettica. Entro il quale nessuno assicura vengano effettivamente scrutati, mentre magari Filebo si trattiene dal dolore e conosce il piacere, proprio per la sua mancata partecipazione al faticoso gioco filosofico, in cui non è prevista alcun'educazione effettiva al raggiungimento del piacere. "Il saggio cerca di raggiungere l'assenza di dolore, non il piacere", scrive Aristotele nel IV libro dell'Etica Nicomachea.

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