lunedì 3 agosto 2009

pensieri di novembre 2008

Scrive mons. Rino Fisichella;
“In un periodo come il nostro, in cui la libertà soffre di una cronica schizofrenia, resa ancora più pericolosa dagli effetti illusori proposti, dovremo pur chiederci dove si trovi la vera libertà e non una sua parvenza. Conditio sine qua non per una crescita personale e sociale che giunga a una piena identità e maturità. Certo, io sono libero. La condizione di possibilità per la libertà soggettiva è uno dei dati acquisiti; eppure, permane intatta la questione se nel momento in cui rifiuto la verità con cui sono venuto a contatto sono veramente libero. La libertà di scelta, infatti, non può essere posta semplicisticamente come capacità di accogliere alcune verità e rifiutarne altre. Rinchiudersi alla verità è libertà o tradimento? È intorno a questa domanda che ci si divide e le interpretazioni con i dovuti distinguo si moltiplicano. Se, tuttavia, l’immissione nella verità permette il dischiudersi di un’infinita possibilità di conoscenze, come può realizzarsi una libertà vera, se con un atto di scelta impedisco di accedere a una conoscenza più profonda del mio mistero personale? Delle due l’una, o rifiuto di essere un enigma a me stesso oppure scopro l’insondabilità della verità e la necessaria tensione verso di essa.”
Io commento: ma potrei arrivare a dire che la verità sono io, è l’enigma che io rappresento, ciò che posso diventare, e la tensione che intendo mantenere sempre attiva è quella verso la verità che rappresento. E per farlo, per mantenermi in tensione, esploro, cerco, mi incuriosisco di tutto, senza diventare mai tuttologo, senza cedere alla stanchezza del non aver afferrato altro che pochi bagliori e molti oceani di nulla, senza abdicare all’entusiasmo e senza soprattutto giungere-proprio perché resta comunque una TENSIONE eterna- all’idea di bastarmi, ma andando di continuo OLTRE me, imparando come in questo si nasconda la più nobile delle occasioni gratificanti, che solo in apparenza sembrano in conflitto con quella ricerca di benessere, che osserva ogni gratuita azione verso l’altro come una violazione del proprio equilibrio.
Se gli altri, cioè, e tutti i gesti che il loro essere intorno a me mi impongono di fare, vengono vissuti come momenti di ricerca del me, e non “altro”, che mi cancella, che mi fa soffrire, che mi toglie il tempo che potrei dedicare alla lettura dei romanzi russi, bene, se gli “altri” diventano la molla più forte perché la strada verso il me si arricchisca di senso, già l’uomo occidentale potrebbe aver trovato una ragione valida per non creare degli idoli, e tuttavia rispettare l’etica, la democrazia, la libertà degli altri e del sé.
Perché queste non le percepirà più come in lotta, ma, avendo chiaro come il sistema del riconoscimento reciproco sia costituito, si impegnerà gradualmente a rispettarlo.
Questo è ciò cui dovremmo mirare. Non si tratta, dunque, di domandarsi se la possibilità della convivenza umana sia con o senza Dio.
Il riassunto della posizione di Fisichella nell’intervento “etica trascendente” è : “è il momento di recuperare in modo serio il tema della legge naturale come il principio a cui ricorrere in una società laica e pluralista. Da ogni parte si voglia guardare, senza preconcetti o visioni ideologiche, ci si incontra con la stessa idea di fondo: esiste una legge, deve esistere una legge, che non ha l’uomo come autore”.
La legge è il viso dell’altro, che è il solo capace di guardarmi e ricordarmi chi sono. Ed è un viso che non posso offendere, perché offenderei me stesso. Ora, chi la dà questa legge, se non la natura, che ci ha messo tutti qui, insieme, a coesistere e a chiederci di non distruggerci? Perché distruggerci?
La tracotanza, il bisogno di andare oltre quel po’ che la vita dà, illude l’uomo occidentale da sempre. Lo rende il più deinos degli esseri viventi, come dice Heidegger, perché non solo si innalza sulla natura-primo movimento della sua violenza- ma pretende di manipolarla, assoggettarla, impedendo all’Essere, che è oltre l’uomo, la pianta, il sasso ed il cielo, di affacciarsi nel raggio della sua contemplazione, della sua custodia.
Se l’uomo ricordasse a sé stesso che è l’unico capace di percorrere l’esistenza cercandosi per farsi custode dell’Essere e come tanto bisogno di “eticità” nasca proprio dal potersi fare più accogliente, sarebbe semplice immaginare una realtà diversa.
Ma l’uomo che ha in mente Heidegger è ancora troppo distante dall’uomo che il filosofo dovrebbe finalmente cercare di individuare nelle sue discussioni.
Lo è certamente meno di quello di Gadamer, ma ancora non è “l’uomo”. L’uomo può essere tutto e niente, e non c’è umanità. Forse ha ragione Pessoa:

“Sono nato in un’epoca nella quale la maggior parte dei giovani avevano perduto la fede in Dio, per la stessa ragione per cui i loro padri l’avevano posseduta: senza sapere perché. E dunque, dato che lo spirito umano teso per sua natura alla critica, non perché pensa, ma perché sente, la maggior parte di quei giovani ha scelto l’Umanità come surrogato di Dio. Ma io appartengo a quella specie di uomini che stanno sempre a margine di ciò a cui appartengono e che non vedono soltanto la massa alla quale appartengono, ma anche i grandi spazi che esistono vicino. Perciò non ho né abbandonato Dio così totalmente come gli altri, né ho mai accettato l’Umanità. Ho argomentato che Dio, essendo improbabile, potrebbe esistere; e dunque sarebbe lecito che fosse adorato; e che al contrario l’Umanità, essendo una mera idea biologica e non significando altro che la specie animale umana, non è degna di essere adorata più di qualsiasi altra specie animale. Questo culto dell’Umanità, con i suoi riti di Libertà e Uguaglianza, mi è sempre sembrato un ritorno di quei culti antichi nei quali gli animali erano come dèi o gli dèi avevano teste di animali.
Così, non sapendo credere in Dio, e non potendo credere in un insieme di animali, sono rimasto, come altri della riva delle genti, in quella distanza da tutto che comunemente è chiamata la Decadenza. La Decadenza è la perdita totale dell’incoscienza; perché l’incoscienza è il fondamento della vita. Il cuore, se potesse pensare, si fermerebbe.
A chi come me vive e non sa avere vita, che cosa resta se non, come ai pochi altri simili a lui, la rinuncia come modo e la contemplazione come destino? Non sapendo che cos’è la vita religiosa né potendolo sapere, poiché non c’è fede attraverso la ragione; non potendolo avere fede nell’astrazione dell’uomo né sapendo d’altronde che farne, ci restava, in quanto ragione di avere anima, la contemplazione estetica della vita. E così, estranei alla solennità di tutti i mondi, indifferenti al divino e disprezzatori dell’umano, ci dedichiamo futilmente alla sensazione senza proposito, coltivata in epicureismo esacerbato come lo richiedono i nostri nervi cerebrali.
Accogliendo dalla scienza soltanto quel suo precetto basilare secondo il quale ogni cosa è soggetta a leggi fatali, contro le quali non si reagisce spontaneamente perché la nostra reazione significa che quelle leggi ci hanno fatto reagire; e verificando come quel precetto concorda con l’altro, più antico, della divina fatalità delle cose, noi rinunciamo allo sforzo come le persone gracili rifuggono dagli esercizi degli atleti, e ci cuciamo sul libro delle sensazioni con il grande scrupolo dell’autentica erudizione.
Non prendendo niente sul serio, e pensando che non ci sia stata data altra sicura realtà se non le nostre sensazioni, in esse ci rifugiamo e le esploriamo come grandi paesi sconosciuti. E se ci dedichiamo assiduamente non solo alla contemplazione estetica ma anche all’espressione dei suoi modi e risultati, ciò avviene perché la prosa o il verso che scriviamo, privo della voglia di voler convincere l’altrui intelletto o di smuovere l’altrui volontà, è soltanto come il parlare ad alta voce di chi legge, che serve a dare piena oggettività al piacere soggettivo della lettura.
Sappiamo bene che ogni opera deve essere imperfetta, e che non c’è contemplazione estetica meno sicura della contemplazione estetica della nostra scrittura. Ma imperfetta è ogni cosa, e non c’è tramonto così bello che non potrebbe essere ancora più bello, o lieve brezza portatrice di sonno che non potrebbe darci un sonno ancora più calmo. E così, contemplatori in ugual modo delle montagne e delle statue, godendo i giorni come godiamo i libri, sognando tutto per convertirlo in primo luogo alla nostra sostanza intima, faremo anche descrizioni e analisi che, una volta fatte, si trasformeranno in cose estranee che potremo assaporare come se arrivassero al crepuscolo.
E questo non è lo spirito dei pessimisti, come quello di Vigny per il quale la vita era una prigione dove egli intrecciava della paglia per distrarsi. Essere pessimisti significa prendere ogni cosa in modo tragico, e tale atteggiamento è un’iperbole e un fastidio. È pur vero che possediamo concetti di valore da applicare all’opera che produciamo. La produciamo certamente per distrarci; ma non come il prigioniero che intreccia fili di paglia per non pensare al Destino, semmai come la fanciulla che ricama cuscini, per distrarsi e niente più.
Considero la vita una locanda dove debbo fermarmi fino a quando non arriverà la diligenza dell’abisso. Non so dove essa mi porterà perché non so niente. Potrei considerare questa locanda una prigione, perché qui sono costretto ad aspettare; potrei considerarla un luogo di socialità, perchè qui mi ritrovo con gli altri. Eppure non sono né impaziente né uguale agli altri. Lascio coloro che si chiudono in camera e si distendono pigramente sul letto in attesa insonne, lascio costoro a ciò che essi sono. Lascio coloro che chiacchierano nei salotti da dove mi arrivano comodamente musiche e voci, lascio costoro a ciò che essi fanno. Io mi siedo sulla soglia e immergo il mio sguardo e il mio udito nei colori e nei suoni del paesaggio e canto piano piano, per me soltanto, dei vaghi canti che compongono nell’attesa.
Poi, per tutti noi scenderà la notte e arriverà la diligenza. Mi godo la brezza che mi è data e l’anima che fu data per godere la brezza, e non interrogo e non cerco altro. Se ciò che lascerò scritto nel libro dei viandanti, ammesso che qualcuno un giorno lo legga, potrà intrattenere questo qualcuno nella traversata, sarà bene. Se nessuno lo leggerà, se nessuno si intratterrà, sarà bene lo stesso."

Perché non accolgo questa pregevolissima esteticamente posizione? Perché è un modo per non fare i conti con la storia, per immaginarla distante e sentirsi incapaci di misurarsi con essa. Forse lo si è. Ma si deve sapere.

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